Il Papa e Napoli, tra fede popolare e cultura

Due realtà che si incontrano

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Un tempo si diceva che quando la Nazionale di calcio attraversa un momento difficile, va a giocare a Napoli, perché questa città è l’unica in Italia che sa fare prevalere il sentimento sulla critica, e perfino sulla ragione.

Il Papa, certamente angustiato dalle incomprensioni e dalle ostilità che ampi settori della Curia frappongono alla sua opera riformatrice, ricorre al bagno di folla per trovare nel popolo cristiano quel consenso spontaneo e corale, quella spinta che supera di slancio ogni ostacolo artificioso, frapposto dall’invidia personale e dallo spirito di conservazione.

Con questa scelta, il Pontefice applica alla Chiesa un “modus operandi” proprio dei grandi movimenti sociali del suo Continente, l’America Latina: l’appello alla piazza non significa coartare le istituzioni rappresentative, e costituisce quindi l’esatto contrario del “golpe”, frutto di una trama ordita contro il popolo: l’azione delle masse tende al contrario a corroborare con una grande e spontanea manifestazione di consenso le scelte compiute da chi è stato chiamato a governare.

Se il Papa vuole riformare la Chiesa, è il popolo cristiano, artefice ed insieme beneficiario del suo disegno il soggetto chiamato ad esprimere il proprio consenso. E Napoli è la città d’Italia dove la cultura popolare, il sentimento popolare non hanno una espressione vernacolare, folcloristica e subalterna, ma anzi esprimono una autentica egemonia.

Molti anni or sono, Pier Paolo Pasolini, l’intellettuale che colse più acutamente come la fine della cultura popolare rappresentasse per l’Italia la vera causa dell’imbarbarimento che oggi stiamo vivendo, realizzò uno dei suoi film migliori: il Decamerone, ispirato dall’opera del Boccaccio.

Gli attori si esprimevano nella lingua regionale napoletana, ed i critici rimproverarono il regista perché i suoi personaggi avrebbero dovuto parlare in fiorentino.

Pasolini rispose che Napoli era l’unica realtà dove la cultura popolare sopravviveva in Italia, e che quindi soltanto parlando la sua lingua si sarebbe potuto cogliere lo spirito dell’opera letteraria cui si era ispirato.

E’ dunque indubbio che Bergoglio, uomo abituato al contatto anche fisico con le masse, a quella dialettica diretta, priva di ogni intermediazione ma anche aliena da ogni manipolazione tra il capo – anche spirituale – ed il popolo che egli ha conosciuto e praticato in America Latina sarà capito dai Napoletani, e soprattutto capirà i Napoletani.

Basta uno soltanto di quegli applausi che soltanto il cuore di Napoli sa esprimere per sbarazzare tutti i sofismi, tutte le ipocrisie e tutte le malizie che annidano nella Curia Romana, per cui il Papa tornerà a Roma forte di un grande consenso per tutto quanto sta facendo.

Fin qui gli aspetti non problematici della visita, quanto non può essere soggetto ad alcuna incognita. Francesco non è però soltanto un uomo del popolo, nel quale la gente spontaneamente si riconosce: egli è anche un finissimo intellettuale, un Gesuita nel senso più profondo,  che si attribuisce a questa qualifica. Né egli può dimenticare la profondità e la sottigliezza della cultura in cui si è formato.

E proprio per questo egli troverà a Napoli non soltanto la gratificazione del trionfo tributato da una folla sinceramente entusiasta, ma anche una insidia: all’ombra del Vesuvio non sempre la cultura degli intellettuali e quella del popolo si sono incontrate, anzi a volte si è determinato tra l’una e l’altra uno scontro drammatico, anzi tragico.

Il momento in cui forse questo conflitto si manifestò più acutamente fu il 1799, quando i “lazzari”, istigati dal cardinale Ruffo di Calabria fecero strage dell’intellettualità partenopea.

Il popolo rifiutò sanguinosamente una rivoluzione compiuta in suo nome. Come fu possibile questo conflitto? Esso si produsse fondamentalmente per un motivo paradossale: perché – a differenza di quanto avveniva nelle altre città e regioni d’Italia – la cultura popolare, a Napoli, non era subalterna, non si adagiava in una dimensione vernacolare, ma anzi reclamava l’esercizio di una egemonia che era tale – se non nella sfera accademica ed intellettuale – certamente in quella sociale.

Tutta la riflessione del meridionalismo si può dire sia partita da quella lontana – e pur così attuale tragedia: il cosiddetto “riscatto delle plebi” poteva avvenire soltanto rendendole soggetti attivi e coscienti, e non oggetto passivo – della vicenda civile.

Ci sono voluti due più di due secoli perché l’anima popolare e quella intellettuale di Napoli e del Mezzogiorno si identificassero in una causa comune, riconoscendo l’una la funzione e la dignità dell’altra.

Il Papa giunge a celebrare questa conciliazione, ma anche ad avvalersene per l’opera immensa di trasformazione della Chiesa in cui è impegnato: riuscirà certamente nell’intento, perché sa riconoscere le ragioni dell’una parte e dell’altra.

Papa Bergoglio è infatti nello stesso tempo uomo del popolo e grande intellettuale. Lo vedremo dunque venerare la teca col sangue di San Gennaro in mezzo alla plebe ancora ferma nelle sue devozioni tradizionali, ancora integra in quell’anima che qualcuno considera con spregio fondamentalmente “pagana”, e dialogare con la grande intellettualità, erede di una delle capitali della cultura europea. La Chiesa e l’Italia hanno bisogno del contributo di entrambe.

Benvenuto a Napoli, Papa Francesco, e “che la Madonna vi accompagni!”.

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Alfonso Maria Bruno

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