Alle sue spalle, don Franco Esposito, cappellano del carcere di Poggioreale che il Papa visiterà domani nel suo tour de force a Napoli, ha un quadro di Fabrizio De Andrè che reca la celebre frase di Via del campo: “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior…”. La conserva nel cuore quella frase don Franco perché, in tanti anni, ne ha visti nascere parecchi di fiori dal letame di un carcere definito il peggiore d’Italia: spacciatori che sentono la vocazione al sacerdozio, riconciliazioni di famiglie, ladri e assassini che decidono di cambiar vita e orientarsi al bene. Certo, questo non è nulla rispetto all’umanità complessa rinchiusa in quelle quattro mura. Francesco domani ne vedrà uno scorcio pranzando allo stesso tavolo con alcuni detenuti, tra cui tossicodipendenti, trans, malati di Aids. “Una scena evangelica”, dice don Franco, che vale più di mille catechesi. Di seguito l’intervista.
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Poggioreale, uno dei carceri più antichi d’Italia, anche uno dei più affollati. Quale realtà troverà il Papa domani?
Una realtà difficile. Fino a qualche mese fa il carcere di Poggioreale soffriva di un eccessivo sovraffollamento. Eravamo arrivati a circa 2900 detenuti su una capienza di 1400. Era quindi una situazione invivibile non solo per loro, ma anche per gli operatori e per le diverse attività. Abbiamo dovuto limitare infatti dei progetti con cui volevamo coinvolgere tutti i detenuti, riuscendo a impegnare invece solo il 20% di loro. Il dramma è che, pur essendo una Casa circondariale, abbiamo tanti detenuti “definitivi” che avrebbero diritto al lavoro. Ma solo 200 sui 1900 presenti lavora, perché non ci sono sovvenzioni adatte a rispondere a questo diritto. Una grossa parte continua a rimanere per 22 ore chiuso in una cella.
Quindi non c’è stato nessun miglioramento? Poggioreale continua a rimanere “l’inferno d’Italia” come molti lo definiscono?
Ci sono stati dei miglioramenti, ma rimane uno dei carceri peggiori d’Italia. L’ingiustizia del lavoro permane, c’è stato però un grosso sfollamento arrivando a 1800 ‘ospiti’. Il problema è che molti sono stati trasferiti in altri carceri, come ad esempio in Santa Maria Capua Vetere, e hanno creato un blocco, un ingorgo in strutture dove prima si faceva qualcosa di buono. Attività come progetti rieducativi o di inserimento sociale sono state interrotte. E questo rappresenta un gravissimo problema.
Perché?
Perché queste attività sono le uniche cose che servono in carcere. Il miglioramento delle persone avviene solo quando esse hanno un contatto con una realtà positiva, con un progetto che le faccia crescere, maturare, prendere coscienza del male commesso. Quando ciò avviene nell’essere umano nasce un desiderio di vivere in modo diverso, di vivere per il bene.
Avete fatto esperienza di questo?
Si, soprattutto nei gruppi di evangelizzazione che sono presenti in tutti i padiglioni. Lì si riflette sulla propria vita, molti prendono coscienza dei loro reati, dei loro peccati, e maturano il desiderio di orientare la propria vita al bene. L’incontro con l’operatore, è fondamentale, perché è una persona che guarda il detenuto non per il reato commesso, ma per accoglierlo come persona. Ci sono tanti fallimenti, ma anche tante belle esperienze. Ad esempio abbiamo un ragazzo uscito sei anni fa dal carcere che adesso è un volontario, cura gli altri ragazzi affidati e svolge questo servizio con passione. Anche altri detenuti, una volta usciti, hanno trovato un minimo di accoglienza all’esterno e un piccolo inserimento lavorativo e quel poco gli ha permesso di tagliare con dei legami negativi e incominciare una vita nuova.
Secondo lei, ora come ora il sistema penitenziario è adeguato a far fronte a questo tipo di esigenze?
Credo che la risposta che lo Stato attualmente dà come carcere non serve a niente, anzi serve a peggiorare le persone. Ciò che invece dovrebbe diventare progetto politico è il prima e il dopo il carcere. Il prima per prevenire: quindi un’attenzione alle fasce più deboli, perché diciamoci la verità – come ha detto lo stesso Papa Francesco – in carcere ci sono “i pesci piccoli”, quelli grandi sono fuori, nuotano liberamente nel mare. Dietro le sbarre ci sono persone deboli che vengono da strati di popolazione abbandonati dallo Stato e che poi, quando escono, vedono la loro vita peggiorata. Quindi, il carcere, come strutturato attualmente, è una istituzione umana che va contro l’uomo, perché non dà alla persona quello di cui ha diritto: rieducazione, inserimento, affettività… Io dico sempre che in carcere si entra colpevoli di un reato commesso, e si esce vittime di un reato commesso. Il reato dello Stato però.
Alla luce di tutto questo, che significato ha la presenza del Papa domani?
Il Papa ha scelto personalmente di venire a Poggioreale e mangiare coi detenuti. Questo è particolarmente significativo, perché il Papa non viene a fare una celebrazione o una preghiera: lui viene per sedersi a tavola con i detenuti. È un annuncio evangelico, Gesù amava mangiare con i peccatori e i pubblicani; in Cristo non c’è stato nessuna parola di giudizio o di condanna verso questa gente, ma un mettersi accanto. Questo ha fatto nascere la conversione. È quello che fa il Papa: lui viene per stare accanto e dire che la Chiesa non è una Chiesa “per” questo mondo, ma “con” questo mondo, “in” questo mondo. Questa vocazione alla compagnia compie poi i miracoli della misericordia.
E i detenuti come hanno accolto questa notizia che il Papa si sarebbe seduto al loro fianco?
Hanno capito le intenzioni del Santo Padre e hanno voluto ricambiare l’affetto preparando con cura questo evento per mesi. Anzitutto materialmente: hanno, ad esempio, lavorato oltre le ore previste, restaurando la chiesa, preparando il giardino. Hanno comprato una statua di San Francesco, e con le loro mani hanno realizzato un’immagine di Papa Francesco in ferro battuto. Si figuri che hanno seguito pure corsi di cucina per preparargli il pranzo… Ma oltre alla preparazione così concreta, c’è stata anche una preparazione spirituale. Tutti i detenuti di tutti i padiglioni hanno partecipato a gruppi di preghiera e catechesi, sapendo che il Papa viene a confermare una presenza di Chiesa che già c’è, che non li reclude, né li esclude, ma li accoglie. Perché la Chiesa, cioè noi, siamo chiamati a non guardare il reato, ma la persona. Certo dobbiamo denunciare il male, le ingiustizie, la camorra, anche con chiarezza, ma prima di tutto siamo chiamati ad amare la persona, perché solo l’amore cambia il cuore degli altri. E questo il Papa ce lo insegna e ce lo dimostra continuamente, a parole e con gesti concreti.
In base a che criterio avete scelto i commensali del Santo Padre?
Abbiamo fatto un sorteggio in modo da presentare al Pontefice un rappresentante per ogni padiglione. Quindi tossicodipendenti, due transessuali, quattro malati di Aids, altri del centro clinico in carrozzella… L’unico che abbiamo scelto direttamente è un argentino, in galera per spaccio internazionale. Deve scontare ancora altri 15 anni… Lui farà anche una domanda al Papa. In ogni caso ci saranno solo detenuti, nessuna autorità, per volontà del Papa stesso.
E tutti questi hanno cucinato quindi per Francesco?
Sì. Cucineranno quello che si mangia ogni giorno in carcere, ma lo cucineranno con il cuore… Anche questo è stato un desiderio del Papa: un menù semplice, lui ha chiesto di mangiare ciò che mangiano i detenuti ogni giorno. Qualcuno voleva far venire un catering, ma la voce è arrivata a Roma e Francesco ha bloccato la proposta. Quindi sul tavolo ci sarà pasta al forno, fettine di vitello, broccoli e patate. E poi il dolce che sarà mangiato dal Papa e dai commensal
i, ma anche da tutti i detenuti nelle diverse celle. È stata questa una iniziativa del presidente del Tribunale di sorveglianza che ha voluto offrire un dolce ad ogni recluso. Quindi verranno distribuiti 1900 dolci.
Stavo guardando questa frase sul quadro di De Andrè alle sue spalle: “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”. Dal letame di Poggioreale è nato qualche fiore?
Sì, c’è un ‘fiore’ in particolare… molto bello… che sta da quattro anni lì e tra qualche settimana dovrà uscire. È un ragazzo di 27 anni, di cui non dico il nome, che una volta uscito inizierà seriamente il cammino da sacerdote. È una cosa che mi commuove…
Perché era in galera?
Aveva una piantagione… Diceva di essere un amante delle “cose naturali”. (Ride) Ha preso coscienza del male che stava facendo e ha cominciato un cammino di fede che l’ha portato a maturare una vocazione. Anche lui starà al tavolo con il Papa. Ma oltre a questo ragazzo ci sono tanti altri casi di persone che si sono riconciliate con le mogli, che non avevano una vita, non avevano regole, e che hanno cominciato a riscoprire un modo nuovo di stare in società e in famiglia. Tanti fiori, in mezzo però a tanti fallimenti.
Tra questi anche i diversi casi di suicidio…
Certo, Poggioreale ne ha avuti tanti. Come anche tanti di autolesionismo. Quello che però la società non sa è che ci sono molti più casi di suicidi di gente uscita dal carcere. Proprio la scorsa settimana un transessuale che noi curavamo e che frequentava il centro di pastorale, si è tolto la vita. Nel carcere aveva una vicinanza, da parte mia, dei volontari, aveva persone con cui parlare, aprire il cuore, un’accoglienza. Fuori ha trovato tutto chiuso. Io stesso ho cercato in tutti i modi di trovare a Napoli o in Italia un centro di accoglienza per ragazzi nella sua situazione, perché sapevo che altrimenti non ce l’avrebbe fatta. Ma non esiste nulla in Italia. Ed è successa la tragedia. E quante ne succedono ogni giorno, quanti escono dal carcere e nessuno sa che vita hanno dopo. Lo Stato, fin quando stai in carcere, spende soldi, energie, per tenerti chiuso, una volta uscito ti dice: “Chi se ne importa più, te la vedi tu!”. E in prigione il suicidio fa rumore, ma tutte le vite ferite a morte chi le cura più? Quelle forse non fanno notizia…