Una situazione intricata dalla difficile soluzione che richiede una risposta forte e concreta da parte della comunità internazionale. È il quadro del Medio Oriente che traccia l’osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite a Ginevra, mons. Silvano Tomasi. In questa intervista a ZENIT, il presule auspica anche un diretto coinvolgimento dei paesi musulmani contro la minaccia terroristica in corso,per evitare che un eventuale intervento militare dell’Occidente venga visto come un’ingerenza negli affari del Medio Oriente o come uno scontro di religioni. Naturalmente, spiega Tomasi, l’azione dovrebbe avvenire sotto l’egida delle Nazioni Unite. Di seguito l’intervista.
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Migliaia di cristiani e di altre minoranze sono stati mandati via o massacrati in Siria, Iraq e in altri Paesi mediorientali da parte dei miliziani dello Stato Islamico. Con i terroristi un dialogo di fatto è impossibile e con i governi risulta anche difficile. Cosa fare allora?
Siamo di fronte ad una situazione fluida dove si intrecciano una varietà di problemi che provocano risposte irrazionali. Fino a quando non si riesce a portare attorno a un tavolo coloro che rappresentano gli interessi politici e militari in questa parte del mondo, tutti i tentativi risulteranno inutili. Se non riusciamo ad instaurare un dialogo non possiamo immaginare di mettere fine alle violenze e alle persecuzioni. Nella nostra attività multilaterale, e la dichiarazione congiunta del 13 marzo scorso ne è un esempio, stiamo cercando una convergenza di interessi e un incoraggiamento ad agire per tutti i rappresentanti politici nel complesso quadro del Medio Oriente. Un dialogo diretto è difficile: manca un interlocutore di riferimento. Ci sono varie forze che cercano di interagire a livello politico, a livello culturale e a livello religioso, ma senza un coordinamento chiaro ed efficace.
Attraverso filmati di decapitazioni collettive e altre brutalità, sembra che lo Stato Islamico voglia provocare a tutti i costi una reazione dell’Occidente. Come intervenire senza che questo possa essere considerato una “crociata occidentale”?
Per evitare una lettura semplicistica che potrebbe inquadrare la situazione come una guerra di religione, dovremmo tener conto delle parole saggie del Santo Padre durante la sua visita in Turchia il novembre scorso quando ci ricordava che “un contributo importante può venire dal dialogo interreligioso e interculturale, così da bandire ogni forma di fondamentalismo e di terrorismo, che umilia gravemente la dignità di tutti gli uomini e strumentalizza la religione”. La Santa Sede ricerca sempre la pace tramite il dialogo. L’intervento militare internazionale in difesa delle minoranze minacciate è una dottrina che è stata sviluppata sia nel diritto internazionale sia nell’insegnamento sociale della Chiesa Cattolica. Per evitare che un eventuale intervento militare possa essere visto come un’ingerenza dell’Occidente negli affari del Medio Oriente, o come uno scontro di religioni, i Paesi musulmani del Medio Oriente devono essere direttamente coinvolti. Naturalmente, l’azione dovrebbe avvenire sotto l’egida delle Nazioni Unite. Procedere diversamente aprirebbe la strada a mali peggiori. Certo la macchina Onu è lenta e spesso sembra non avere i tempi utili di risposta. E’ però una garanzia di imparzialità e ricerca del bene comune.
Fino a che punto è lecito l’uso della forza?
L’ideale è di non dover mai usare la forza. Realisticamente, però, capitano situazioni di emergenza quando si devono salvare vite innocenti. Papa Giovanni Paolo II, nel Messaggio per la Giornata della Pace 2000, dava un tipo di linea guida che è valida anche per la situazione attuale: “Evidentemente, quando le popolazioni civili rischiano di soccombere sotto i colpi di un ingiusto aggressore e a nulla sono valsi gli sforzi della politica e gli strumenti di difesa non violenta, è legittimo e persino doveroso impegnarsi con iniziative concrete per disarmare l’aggressore. Queste tuttavia devono essere circoscritte nel tempo e precise nei loro obiettivi, condotte nel pieno rispetto del diritto internazionale, garantite da un’autorità riconosciuta a livello soprannazionale e, comunque, mai lasciate alla mera logica delle armi.”
Il diritto di difendersi, cioè l’uso della forza da parte della comunità internazionale in difesa di coloro che sono impossibilitati ad esercitare i loro diritti fondamentali, è una dottrina consolidata, sia nelle Nazioni Unite sia nella Dottrina sociale della Chiesa Cattolica. Di fatti, esiste l’obbligo per la comunità internazionale di rispondere e fermare in particolare ogni forma di genocidio. Non vorremmo trovarci tra qualche anno ad ascoltare i soliti processi ex-post dove la comunità internazionale si interroga sul perché di un mancato intervento.
Quindi come dovrebbe svolgersi un eventuale intervento della comunità internazionale?
La comunità internazionale, all’indomani delle atrocità della Seconda Guerra Mondiale, si è data regole e strumenti per affrontare emergenze umanitarie. In particolare, spetta al Consiglio di Sicurezza determinare le modalità ed i tempi di un eventuale intervento. La posizione della Santa Sede, da sempre, è quella di facilitare il dialogo per una soluzione pacifica delle crisi e di incoraggiare la comunità internazionale ad agire unita, in particolare per fermare questa specie di genocidio che stanno soffrendo i cristiani ed altre comunità nel Medio Oriente. Naturalmente, la via del dialogo è difficile con un gruppo che non ha alcun rispetto per il diritto internazionale e nessun desiderio di dialogare.