La metafisica è possibile

Per quelli che il Creatore non esiste (Decima parte)

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Jakobson ha analizzato il linguaggio, individuando in esso sei funzioni fondamentali così denominate: conativa o imperativa, fatica, poetica, emotiva o espressiva, metalinguistica, referenziale o cognitiva[1].

La funzione conativa riguarda l’ambito delle esortazioni e dei comandi; la fatica è utilizzata per mantenere un contatto tra gli interlocutori, come ad esempio nei saluti di cortesia; la poetica è presente in tutti gli enunciati in cui predomina l’efficacia estetica del messaggio, come nel caso non solo dei testi letterari ma anche degli spot pubblicitari; l’emotiva esprime stati d’animo; la metalinguistica è la riflessione che la lingua rivolge su stessa, come nel caso della grammatica; infine, la referenziale o cognitiva è la funzione tramite la quale il linguaggio si riferisce alla realtà, come nel caso della filosofia e della scienza.

Quest’ultima funzione è fondamentale per comprendere come faccia parte della natura del linguaggio di essere referenziale nei confronti della realtà, per cui, come è stato detto prima[2], è necessario entrare nel linguaggio per scoprire che esso rimanda alla realtà di cui è espressione.

La realtà può essere denominata in molte maniere, a seconda del punto di vista secondo il quale la si analizza.

Una stessa realtà può essere detta in molti modi in relazione al linguaggio utilizzato per esprimerla. Così, ad esempio, per la botanica il fiore è l’organo riproduttivo delle Angiosperme, per la letteratura è il simbolo della gioia e dell’amore. Non ha senso chiedersi se ha ragione la botanica o la letteratura perché sono linguaggi diversi che si riferiscono alla stessa cosa.

La “cosa” è la stessa e i modi dirla sono differenti, ma questi modi di dire non sono arbitrari perché ciascuno di essi coglie un significato che è insito nella realtà di cui si parla.

Molteplici sono i significati che informano ogni realtà, ma ne esiste uno che è al fondamento di tutti gli altri e tolto il quale tutti gli altri si annichilano. E’ il significato “ente”.

Il fiore in tanto può essere l’organo riproduttivo delle Angiosperme per i botanici o il simbolo della gioia per i poeti in quanto è un ente, cioè “qualcosa che è” (e non un nulla) e ogni realtà, dalla più semplice alla più complessa, implica in se stessa il significato “ente”.

Ogni realtà (un uomo, un animale, un vegetale, un minerale) è un ente e ogni scienza, come diceva Aristotele, è scienza dell’ente perché una scienza del ni-ente è un assurdo, ma esiste una filosofia che studia l’ente non secondo aspetti specifici come fanno tutte le scienze, ma propriamente in quanto ente. Questa filosofia che ha per oggetto di indagine l’ente in quanto ente è la metafisica.

La metafisica è possibile, contrariamente a quanto aveva sostenuto Kant, e, come vedremo, è stato Heidegger a riaprire il discorso metafisico in Essere e tempo[3], indipendentemente dalle sue intenzioni.

Essere e Tempo è l’opera di Heidegger che segna il suo distacco dalla fenomenologia di Husserl, anche se viene riconosciuto che «le ricerche [svolte in Essere e Tempo] sono state possibili sul fondamento posto da Husserl nelle Ricerche Logiche dal quale la fenomenologia venne alla luce» [4].

Heidegger, pur riconoscendo il suo debito filosofico nei confronti del maestro, afferma il suo distacco dalla fenomenologia intesa come corrente storica di carattere neoidealistico, proponendo un modo nuovo di intendere la fenomenologia.

Infatti essa viene identificata con l’ontologia, poiché, scrive il filosofo, «la fenomenologia è il modo di raggiungere e di determinare dimostrativamente ciò che deve costituire il tema dell’ontologia. L’ontologia non è possibile che come fenomenologia»[5].

Questa identificazione della fenomenologia con l’ontologia è la logica conseguenza dei risultati raggiunti utilizzando il metodo fenomenologico per ricercare il senso dell’essere. Infatti, «col problema conduttore del senso dell’essere, – scrive Heidegger – la ricerca si trova di fronte al problema fondamentale della filosofia. Il metodo di trattazione di questo problema è quello fenomenologico»[6].

Il filosofo precisa che la fenomenologia è un metodo e, come tale, «non si subordina né a un ‘punto di vista’ né a una ‘corrente’: la fenomenologia non è né l’una né l’altra cosa, né può divenire tale, almeno finché comprenda se stessa. L’espressione ‘fenomenologia’ significa primariamente un concetto di metodo. Essa non caratterizza il che-cosa reale degli oggetti della ricerca filosofica, ma il suo come»[7].

La fenomenologia è quindi una scienza di carattere formale perché ad essa non interessano i contenuti da indagare, ma come tali contenuti devono essere analizzati.

Infatti l’oggetto della fenomenologia sono delle specifiche modalità di espressione del reale: i fenomeni, intendendo con il termine fenomeno «ciò che si manifesta in se stesso, il manifesto. I phainomena, i ‘fenomeni’, quindi costituiscono ciò che è alla luce del giorno o può essere portato in luce, ciò che i greci a volte identificavano senz’altro con ta onta (l’ente)»[8].

L’identificazione del fenomeno con l’ente comporta necessariamente, l’affermazione del principio di non contraddizione, che è la legge fondamentale dell’ente, e la riabilitazione della metafisica, intesa, aristotelicamente, come «unica scienza [a cui] spetta la considerazione dell’ente in quanto ente e di ciò che ad esso appartiene in quanto ente […]»[9].

Il principio di non contraddizione, come afferma Aristotele, è «il principio più saldo di tutti, è quello intorno al quale è impossibile trovarsi in errore […]»[10].

Il filosofo greco precisa che «la conoscenza di esso è indispensabile a chiunque voglia conoscere una cosa qualsiasi, ed è necessario che ne sia provvisto già chi viene per imparare»[11].

Questo principio afferma, come scrive Aristotele, che «è impossibile che la stessa cosa convenga e insieme non convenga a una stessa cosa e per il medesimo rispetto»[12].

Heidegger, identificando il fenomeno con l’ente, ha implicitamente affermato, nonostante il suo rifiuto della metafisica, che quest’ultima è possibile e che è rifondabile fenomenologicamente, come vedremo nei prossimi articoli.

La nona parte è stata pubblicata sabato 7 marzo.

*

NOTE

[1] Cfr. R. Jakobson, Linguistica e poetica, in Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli 1966, pp. 181-218.

[2] Vedi articolo intitolato: Per quelli che il Creatore non esiste. Derrida: tutto è linguaggio.

[3] Essere e tempo è ancora oggi al centro dell’interesse degli studiosi. Recentemente è stato pubblicato uno studio sulla  genesi di Essere e tempo. In esso è ripercorso il cammino filosofico compiuto da Heidegger, durante il periodo di Friburgo (1916 – 1923) e di Marburgo (1923 – 1928), in sei saggi storico–filosofici raggruppati sotto il titolo Remonter le courant d’Ȇtre et temps, in “Revue philosophique de Louvain”, 3 (2014), pp. 421 – 548.

[4] Heidegger, Essere e Tempo, cit., p. 59.

[5] Ibidem, p. 56.

[6] Ibidem, p. 46.

[7] Ibidem.

[8] Ibidem, p. 48.

[9] Aristotele, Metafisica, IV, 2.

[10] Ibidem, IV, 3

[11] Ibidem.

[12] Ibidem.

Il principio di non contraddizione, se
condo Heidegger (e anche secondo Nietzsche), ha un valore logico, ma non ontologico, cioè non è un principio intrinseco di ogni realtà, ma è proprio la descrizione fenomenologica della realtà a mostrare che ogni ente in quanto ente non è non ente: un foglio in quanto foglio non è non foglio, cioè non può esistere nell’ordine della realtà un foglio non foglio (per es. un foglio-penna), come non può esistere nell’ordine della idealità un cerchio non cerchio (per es. un cerchio quadrato).

Secondo Heidegger, invece, il principio di non contraddizione non è la legge fondamentale del reale, ma è un principio utilizzato dalla ragione umana per dare ordine al caos che esiste nella realtà e il cui uso ha una motivazione «biologica».

Scrive infatti:

Il principio di non contraddizione, la regola che impone di evitare la contraddizione, è la legge fondamentale della ragione e in tale legge, quindi, si esprime l’essenza della ragione. Il principio di non contraddizione non dice tuttavia che «in verità», cioè in realtà, cose contraddittorie non possono mai essere contemporaneamente reali; dice soltanto che l’uomo, per ragioni «biologiche», è costretto a pensare così; in termini sommari, l’uomo deve evitare la contraddizione per sfuggire alla confusione e al caos, ovvero per padroneggiarli imponendo loro la forma dell’incontraddittorio, cioè dell’unitario e del sempre identico. Come determinati animali marini, per esempio le meduse, formano e allungano i loro tentacoli, così l’animale «uomo» usa la ragione e il suo apparato tentacolare, il principio di non contraddizione, per orientarsi e ritrovarsi nel proprio ambiente e per assicurare la propria esistenza.[12]

Il principio di non contraddizione non è affatto un «apparato tentacolare», ma è la legge insita nelle cose; esso dice, contrariamente a quanto sostenuto da Heidegger, che in verità «cose contraddittorie non possono mai essere contemporaneamente reali». È impossibile, ad esempio, che esista nella realtà un corpo che sia, contemporaneamente, vivente e non vivente o un uomo che sia contemporaneamente bianco e nero: contra factum non valet argumentum.

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Maurizio Moscone

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