Padre Marco Tasca, Ministro Generale dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali, ha scritto la lettera Cibo che nutre. Per una vita sana e santa (Roma 2015) indirizzata ai propri confratelli, ma che offre elementi di riflessione validi per tutti, come il brano in cui presenta il modo con cui san Francesco d’Assisi visse il digiuno.
Francesco d’Assisi è un uomo vissuto agli inizi del 1200 e quindi pienamente inserito – pur con la sua singolare creatività – nella cultura e mentalità religiosa del tempo. Che uomini di religione vivessero periodi più o meno prolungati di digiuno, soprattutto nei tempi prescritti dal calendario liturgico, era cosa del tutto ovvia, anche perché la tradizione monastica aveva per secoli affinato questo aspetto dell’ascesi cristiana praticato spontaneamente anche dal popolo. C’è poi da dire che nel Medioevo il settenario dei vizi capitali funzionava da carta topografica per indicare l’allontanamento e la distanza da Dio che ogni eccesso umano provocava.
In questa prospettiva la gola, uno dei due vizi carnali (l’altro è la lussuria), era considerato la porta (“la bocca”) di tutti i vizi e quindi il primo da combattere per non permettere agli altri di sopravanzare. Il tentatore, di fatto, si avvicina a Gesù quando egli, dopo aver digiunato per quaranta giorni, “ebbe fame” (Mt 4,2). La tentazione del pane è quella che emerge in prima battuta e che fin da subito va affrontata. “Non si può infatti ingaggiare la lotta spirituale, se prima non si doma il nemico che è dentro di noi, cioè la gola”, sentenzia Gregorio Magno (Moralia in Job, Pars sexta, XXX 58).
Questo modo di pensare, molto probabilmente era familiare a san Francesco che nella Regola inserisce – dopo le indicazioni sull’Ufficio divino – quelle sul digiuno: “E digiunino dalla festa di Tutti i Santi fino alla Natività del Signore. La santa Quaresima, invece, che a partire dall’Epifania dura ininterrottamente per quaranta giorni e che il Signore consacrò con il suo santo digiuno, coloro che volontariamente la digiunano siano benedetti dal Signore, e coloro che non vogliono non vi siano obbligati. Ma l’altra, fino alla Risurrezione del Signore, la digiunino. Negli altri tempi non siano tenuti a digiunare, se non il venerdì. Ma in momenti di manifesta necessità i frati non siano tenuti al digiuno corporale” (Rb III, 5: FF 84).
Si tratta, come evidenziano i commentatori, di una prassi mitigata rispetto alla Regola non bollata, ma soprattutto in riferimento alla Regola benedettina (FF 84, nota n. 9) e ad altre legislazioni. Il testo, al v. 9, aggiunge inoltre la possibilità di essere esentati dal digiuno corporale per motivi di “manifesta necessità” (espressione larga e non di carattere giuridico), mentre l’ultima frase del terzo capitolo recita: “In qualunque casa entreranno, dicano prima di tutto: Pace a questa casa; e, secondo il santo Vangelo, sia loro lecito mangiare di tutti i cibi che saranno loro messi davanti” (v.14).
Se la vita dei frati era tra gente povera e soprattutto in stato di missione itinerante – diversamente dalla regolarità tipica dei monasteri –, questa concessione non va intesa solo come permissiva (“sia loro lecito”), ma nel senso che i frati dovevano accontentarsi del poco che la gente offriva loro, confidando nella provvidenza ed esercitando così il realismo della povertà. In sostanza, sono i ritmi della missione apostolica a segnare i modi e i tempi del digiuno, non viceversa.
*
Per leggere il testo completo della lettera cliccare qui
Per un approfondimento cfr. Giuseppe Cassio – Pietro Messa, Il cibo di Francesco. Anche di pane vive l’uomo, Milano 2015, pp. 94.