Derrida afferma che il linguaggio, come insieme di segni, non si rapporta alla realtà, perché il segno, come tale, non ha una referenza a una dimensione extra-segnica, cioè al reale.
Il filosofo esprime una tesi analoga a quella sostenuta dall’ermeneutica nichilistica di Vattimo[1], ma, come vedremo, la sua critica radicale a tutta la tradizione filosofica occidentale investe anche l’ermeneutica.
Questa critica è condotta sulla base del concetto derridiano di segno, secondo cui quest’ultimo è intrascendibile e non rimanda quindi, come sostiene tutto il pensiero occidentale da Parmenide a Heidegger, a una dimensione altra da sé. Con la “filosofia” di Derrida assistiamo all’ “affermazione di un mondo di segni, senza colpa, senza verità, senza origine” [2].
Il linguaggio non è, come ripete spesso Ricoeur, un “dire qualcosa di qualcosa”, cioè della realtà, perché Derrida rifiuta, alla luce della sua “grammatologia”, la concezione tradizionale del linguaggio inteso come espressione del reale.
La radicalità della critica di Derrida alla concezione del linguaggio presente in tutta la filosofia occidentale rende problematico il confronto con l’autore francese (il termine “filosofo” è riduttivo riferito a Derrida) perché il confronto necessita di un terreno comune che consenta il dialogo. Tale terreno non sembra rintracciabile poiché il “pensiero” di Derrida sembra differenziarsi totalmente dal ciclo filosofico che va da Parmenide a Heidegger. Infatti sia la metafisica che la fenomenologia sono un discorso che ha per tema l’essere e, per questo motivo, secondo Derrida non differiscono l’una dall’altra.
Scrive infatti l’Autore:
“Mentre critica la metafisica classica, la fenomenologia porta a compimento il progetto più profondo della metafisica […]. I risultati della fenomenologia sono ‘metafisici’, se è vero che la conoscenza ultima dell’essere deve essere chiamata metafisica”[3].
La prova concreta dell’impossibilità per la filosofia in quanto tale di entrare in dialogo con la grammatologia derridiana è stata offerta dall’incontro/scontro, avvenuto a Parigi nel 1981[4], tra Gadamer e Derrida.
I due pensatori, anche se accomunati dalla stessa ascendenza heideggeriana, erano sostenitori di due concezioni opposte del linguaggio. Infatti, mentre per Gadamer il linguaggio è interpretazione delle cose, per Derrida esso è soltanto un insieme di segni, “che bisogna decostruire”[5].
Derrida non poteva accettare il carattere referenziale dell’ermeneutica gadameriana, la quale fa parte, come tutta la filosofia occidentale, dell’ “epoca logocentrica”[6] che privilegia la parola come espressione della verità ontologica.
Secondo Derrida, anche Heidegger, nonostante la sua condanna alla metafisica, si muove all’interno del medesimo “logocentrismo” presente nella metafisica, poiché per il filosofo tedesco “la funzione del logos sta nel puro lasciar vedere qualcosa, nel lasciare percepire l’ente”[7].
Heidegger sbarra con una croce la parola essere[8], perché sostiene che è portatrice di un significato metafisico. Utilizza pertanto termini come Ereignis, Geschehen, cercando delle parole che, in qualche modo, esprimano l’essere, ma facendo così, si pone, secondo Derrida, in un atteggiamento metafisico perché ritiene che il linguaggio possa esprimere l’essere e quindi che il segno si riferisca a un ambito extra-segnico.
Questa referenzialità è impossibile perché, come è stato evidenziato, il segno è intrascendibile; quindi la filosofia come tentativo umano di dire l’essere è un ciclo di pensiero che nasce con i Greci e termina con Heidegger.
La grammatologia condanna, oltre al linguaggio filosofico, anche quello scientifico, perché anche esso detiene una referenza con l’oggetto di indagine.
Il linguaggio come tale non è referenziale e, di conseguenza, vengono confutate tutte le forme di sapere che presumono, in vari modi, di esprimere la verità del reale.
Il linguaggio non è referenziale e la differenza tra esso e la sua origine è talmente radicale che quest’ultima è indicibile. Il termine différance (inesistente nel lessico francese[9]), utilizzato da Derrida per nominare l’origine del linguaggio, in effetti non si riferisce a una dimensione ontologica; quindi l’indicibilità non deve essere intesa nel senso che le viene attribuito dalla teologia negativa, ad esempio neoplatonica. Il termine suddetto non nomina nulla, ma significa soltanto il differenziarsi del linguaggio; la différance è l’evento del linguaggio e tale evento non è un qualcosa di reale distinto dal linguaggio.
La posizione di Derrida è stata interpretata da alcuni critici come una “semiotica strutturale”, ma è necessario evidenziare che la semiotica delimita metodologicamente il proprio campo di indagine allo studio del segno, ma non nega la sua referenza a un ambito extra-segnico, a differenza della “teoria” derridiana che nega tale referenza.
La negazione della referenzialità del linguaggio comporta la distruzione della filosofia e della scienza, perché, se il linguaggio non è per sua natura referenziale, il problema della verità non può essere posto, infatti la questione della verità implica il riferimento alla realtà, intesa come dimensione extra-linguistica.
Il linguaggio, secondo Derrida, è segno originario. Esso non è aperto al reale, ma non si può neanche dire che è chiuso in se stesso, perché tale chiusura presupporrebbe una realtà rispetto alla quale esso sarebbe chiuso, ma tale realtà non esiste quindi si deve affermare che tutto è linguaggio e tutte le distinzioni che sono proprie della filosofia, come ad esempio quella tra reale e ideale, astratto e concreto, vero e falso, buono e cattivo, ecc. sono tutte all’interno del linguaggio, sono cioè tutte forme di discorso.
Ricoeur è stato uno strenuo difensore della referenzialità del linguaggio filosofico, soprattutto ermeneutico, e affermava che ogni discorso implica una triplica referenza, perché presuppone un soggetto che dice qualche cosa ad un altro riguardo a qualche cosa. Scrive in proposito:
“E’ caratteristica prima e fondamentale del discorso […]di essere costituito da un insieme di frasi nelle quali qualcuno dice qualche cosa a qualcuno a proposito di qualche cosa”[10].
Ricoeur sostiene che la referenzialità del linguaggio è dimostrata dalla presenza nel discorso di qualcuno che dice qualche cosaa qualcuno a proposito di qualche cosa, ma “qualcuno” e “qualche cosa” sono parole, e le distinzioni tra ciò che è detto e il riferimento alla cosa reale di cui si parla e le persone che dialogano cadono tutte all’interno del linguaggio. Dal linguaggio non si esce.
Se le cose stanno così, l’epilogo del percorso filosofico iniziato in Grecia più di duemila anni fa sarebbe un radicale nichilismo, perché non sarebbe possibile uscire dal linguaggio per rapportarsi alla realtà extra-linguistica e conoscerla.
E’ necessario porsi la domanda se c’è una via di uscita da questo nullismo ontologico. La soluzione non consiste nell’ “uscire” dal linguaggio ma nell’ ”entrarvi” profondamente per scoprire che esso è come uno specchio nel quale si riflettono delle cose, delle res, che sono il fondamento della sua costituzione. E’ sufficiente analizzare, come ha fatto Trendelenburg, le categorie che appartengono alla struttura della grammatica e della sintassi per vedere come esse si riferiscano a delle realtà: il “soggetto” alla sostanza, l’ “aggettivo” a delle qualità della sostanza, gli “avverbi” allo spazio e al tempo, i “ve
rbi” all’attività o alla passività, ecc.
Un’analisi fenomenologica interna al linguaggio permette di vedere che esso è sempre secondo rispetto a un primo di cui è rispecchiamento. Questo primo, come vedremo nel prossimo articolo, è l’ente, che è possibile conoscere tramite la scienza dell’ente in quanto ente, cioè la metafisica.
L’ottava parte è stata pubblicata sabato 28 febbraio.
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NOTE
[1] Vedi articolo intitolato: Per quelli che il Creatore non esiste. L’ermeneutica odierna: la realtà non esiste.
[2] J. Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, p. 427.
[3] Ibidem, p. 216.
[4] L’incontro è avvenuto il 24 e il 25 aprile 1981 presso Goethe-Institut di Parigi.
[5] J. Derrida, De la grammatologie, Minuit, Paris 1967, p. 107.
[6] Ibidem, p. 231.
[7] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 54.
[8] Cfr. Idem, Zur Seinsfrage, Klostermann, Frankfurt [1956].
[9] I curatori dell’opera Della grammatologia hanno tradotto il termine différance con dif-ferenza, sottolineando che “questo termine non è, rigorosamente parlando, né una parola, né un concetto; esso sarebbe piuttosto un fascio, un viluppo di sensi o di linee di forza” (Avvertenza dei traduttori, in J. Derrida, Della grammatologia, Jaca Book, Milano 1969, p. XIII).
[10] P. Ricoeur, Ermeneutica filosofica ed ermeneutica teologica, in P. Ricoeur, E. Jünkel, Dire Dio. Per un’ermeneutica del linguaggio religioso, a cura di G. Grampa, Queriniana, Brescia 1978, p. 52.