70 parole per 70 anni. Questo il titolo della due giorni promossa dal Centro Sportivo Italiano (Csi) in corso il 6 e 7 marzo presso l’Istituto Augustinianum, a Roma. L’evento si colloca come occasione per riflettere sul valore educativo dello sport e sulle parole che papa Francesco ha rivolto all’associazione nel giugno scorso, durante l’incontro in piazza San Pietro per il suo 70° anniversario dalla nascita, avvenuto nel 1944 su iniziativa della Gioventù Italiana di Azione Cattolica. Alcune riflessioni sono offerte da don Alessio Albertini, consulente ecclesiastico del Csi, impegnato con i ragazzi dell’oratorio e appassionato di sport come suo fratello Demetrio, ex calciatore della Nazionale e ora vice-presidente della Figc. ZENIT lo ha incontrato per approfondire alcuni temi toccati durante i suoi interventi.
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Insieme alla psicologa Caterina Gozzoli ha animato ieri, 6 marzo, la conferenza Marta e Maria: le due facce di una stessa medaglia. Quale il nesso tra questi due personaggi biblici e lo sport?
Bisogna ammettere che il Vangelo non parla di sport, come non parla di tante altre tematiche dell’esistenza la cui evoluzione è avvenuta successivamente. Però il Vangelo sa ispirare la vita nel suo farsi concreta. E allora l’esistenza di Marta e Maria può offrirci spunti interessanti sul tema in questione. Maria riconosce il volto di Gesù e si ferma a contemplarlo, Marta ritiene che questo volto ha bisogno di qualcosa e dunque si adopera per lui. Ebbene, nello sport questi atteggiamenti devono essere interpretati da un dirigente o da un allenatore, che devono anzitutto riconoscere il volto di un ragazzo, di un atleta e sapere poi che per volergli bene devono impegnarsi per lui. Questa credo sia il senso dell’accoglienza in una società sportiva.
L’80% dei bambini italiani pratica sport. Tuttavia, intorno ai 14 anni – proprio quando l’attività sportiva può risultare propedeutica alla crescita fisica, psicologica e sociale dell’adolescente – la maggior parte abbandona. Secondo Lei oggi è più difficile per i giovani fare sport?
La mia esperienza negli oratori e nelle società sportive mi porta a pensare che l’adolescenza, il passaggio alle scuole superiori, corrisponda anche alla fine dell’illusione: se un giovane a quell’età non ha raggiunto un certo livello di agonismo, sa che non potrà più coltivare grandi ambizioni. Ma quella è anche la fase in cui si è più refrattari alla fatica, alle rinunce che lo sport implica, e questo pesa, soprattutto in un mondo giovanile abituato al “tutto e subito”. Per questa ragione, come Csi abbiamo pensato di rivolgere la nostra attenzione, con una serie di riflessioni e di proposte, proprio all’età adolescenziale. Perché se l’accoglienza è autentica, non significa solo stare dietro alla porta ad aspettare che qualcuno venga a bussare, ma anche andare incontro alle persone affinché non si perdano. C’è poi anche un altro aspetto, più materiale, per cui i giovani si allontanano dallo sport. Praticare attività sportiva, oggi, comporta una spesa notevole. L’impiantistica, l’infortunistica, l’attrezzatura hanno dei costi molto alti. Per cui credo che bisognerebbe riscoprire il gusto di fare sport anche senza avere tutti i materiali all’avanguardia e una struttura di prim’ordine.
Strutture che tuttavia, specie nel caso dell’infortunistica, possono avere una funzione fondamentale…
Esattamente. Per sostenere questi costi necessari sarebbe infatti importante coinvolgere di più le istituzioni, le quali riconoscono il valore etico dello sport nel tessuto sociale, ma che poi investono poco in termini economici. I primi tagli al bilancio avvengono sempre sulle attività sportive.
Oltre agli aspetti che ha elencato Lei, la diffusione del digitale può rappresentare un altro deterrente che allontana i giovani dallo sport?
Nell’occupazione del tempo, sì. Però il digitale, che ti consente di venire a contatto con tante persone pur essendo fisicamente lontano da loro, ti espropria di alcune caratteristiche fondamentali nel rapporto umano. Con il digitale non puoi farti prossimo, che significa guardarsi negli occhi, ricercarsi, avere l’ansia di incontrare di persona qualcuno a cui devi dire la verità o manifestare le tue emozioni. Per cui la bellezza dello sport consiste proprio nel creare una relazione autentica, senza idealizzarti, mentre il digitale regala soltanto l’illusione di avere tanti amici.
Lei ha dedicato un libro, Vivere da campione (ed. In Dialogo), al rapporto tra Giovanni Paolo II e lo sport…
Sin dalla sua prima Enciclica, Redemptor Hominis, Giovanni Paolo II rilanciò in modo efficace il valore grande dell’uomo cui la Chiesa è sempre stata molto attenta. Valore che l’uomo esplica nelle sue più disparate azioni, tra le quali c’è appunto anche l’attività sportiva. Anche attraverso quest’attività si può andare incontro a Gesù Cristo, si può accogliere la grazia di riconoscere il proprio valore di uomo al di là dei risultati conseguiti. In questa esperienza – come ha messo in luce Giovanni Paolo II – emergono le virtù di una persona: soprattutto le virtù cardinali, le quali si alimentano nello sport per poi esprimersi nella vita. Altro aspetto caro a Giovanni Paolo II è che l’uomo che fa sport rende gloria a Dio con il suo corpo, per come lo cura e lo allena, sottolineando però di non farlo diventare un idolo.
Passando da un Papa all’altro, Francesco esorta ad “andare nelle periferie”. In che modo lo sport può essere uno strumento di evangelizzazione?
Sono parole che hanno un grande valore. Periferia è ciò che non sta al centro, è il luogo in cui si trovano gli ultimi, nella società così come nello sport. Chi non è capace di ottenere una vittoria, viene infatti “scartato”. In questo senso assumono un ruolo fondamentale gli oratori, i quali devono invece dimostrare che lo sport è un diritto per tutti. Per cui noi del Csi insieme agli oratori non ci adeguiamo a quella che papa Francesco definisce la “cultura dello scarto”.