In pochi riconoscono il nome del pittore cinquecentesco Francesco Ubertini detto il Bachiacca. Eppure varie notizie che lo riguardano sono riportate, da Giorgio Vasari, nelle vite di molti artisti che, in qualche modo, sono stati legati alla sua attività; viene descritto come “diligente pittore, et ancor che fusse amico di Iacone, visse assai costumatamente e da uomo da bene”. Discepolo del Perugino, il Bachiacca fu collaboratore di alcuni tra i più illustri artisti della Firenze del primo decennio del Cinquecento: Pontormo, Granacci, Andrea del Sarto. Si possono ammirare le sue opere in tutti i più famosi musei del mondo, da New York a Londra, passando per Parigi ed Amsterdam fino a San Pietroburgo. Il suo nome riecheggia nelle pagine di Morelli, Argan, Abbate, Nikolenko, Costamagna e tanti altri.
Tra le innumerevoli opere a noi pervenute degno di nota è la Maria Maddalena esposta a Palazzo Pitti a Firenze.
La figura di Maria Maddalena è spesso stata collegata a quella di Maria di Betania, sorella di Marta e del Lazzaro risorto per mezzo del miracolo di Gesù ed alla peccatrice che unge i piedi del Salvatore nella dimora del fariseo Simone. Denominata l’apostolo degli apostoli, colei che è stata testimone oculare dei momenti determinanti della vita del Salvatore, dalla Crocifissione alla Resurrezione, colei che comunicò l’avvenuta ascesa al cielo ai discepoli. Unica donna ad essere perdonata da Gesù, unica figura ad essere miracolata da una malattia non fisica; non è paralica, né cieca, né sorda, né lebbrosa. Presenta una ferita ancora più profonda, quella dell’animo , dello spirito. Maria Maddalena spesso accostata alla figura dell’adultera e della prostituta, si presta alla raffigurazione in atto di penitenza. Proprio tale accostamento fa sì che l’iconografia della santa prediliga una figura femminile in atto di profonda e sofferta espiazione, specialmente dopo l’avvento della Controriforma.
Abbiamo imparato ad ammirare la Maddalena penitente di Tiziano del 1533 ca, esposta nella Galleria Palatina in cui è rappresentato tutto il pathos espresso dallo sguardo rivolto al cielo, il corpo spogliato delle vesti nobiliari, le chiome rosse lunghe e folte, le stesse che hanno asciugato le lacrime versate ai piedi del Cristo. Il fervido pentimento ha la stessa intensità dell’amore devozionale provato dalla donna nel momento in cui inonda di profumo i piedi di Gesù in atto di profonda riconoscenza per la salvezza del fratello Lazzaro, attirando su di sé le critiche dei discepoli. La sua figura pre-rubensiana si staglia contro lo spettatore in maniera prepotente, imponente e sfrontata. Come su un palcoscenico su uno sfondo nero e deserto, la sua figura entra in scena con l’accendersi di un riflettore divino. Commissionata con probabilità per essere ammirata da pochi sguardi, incarna contemporaneamente un atto di cristiana redenzione e un atto di estremo compiacimento.
Il Bachiacca, al contrario, presenta una nobildonna riccamente abbigliata con vesti di velluto rosso, capelli strategicamente raccolti da un prezioso gioiello, un sorriso leonardesco a sottolineare l’influenza dell’artista milanese. Il pittore sembra affacciarsi alla pittura di Lucas Granach il Vecchio, prendendo a modello la Maddalena di Colonia o quella di Van Scorel conservata presso il Rijksmuseum di Amsterdam. Si presenta all’osservatore come Maria Maddalena, connotandosi unicamente per il vasetto di alabastro tenuto tra le mani e l’aureola dorata che fa da contorno al volto. Lo stesso vasetto che accompagna la Santa al sepolcro per ungere il corpo straziato del Risorto. L’iconografia è contrapposta a quella offerta dal Vecellio. Nulla turba l’animo di questa donna. Lo sguardo sicuro e sereno rimane fisso sullo spettatore. Federico Borromeo riconduce tali differenti iconografie a due livelli di adorazione. Nel dipinto veneziano la mano si accosta al petto in atto di mea culpa; gli occhi sono perlati di lacrime, lo sguardo rivolto al cielo. Nella Maddalena dell’Ubertini la tranquillità sottrae il posto alla sofferenza. Il percorso di redenzione è terminato. La donna ha raggiunto il grado di santità; mostra con orgoglio il vasetto di alabastro, strumento che le ha permesso di dimostrare l’amore puro e la devozione verso Cristo che l’ha sempre difesa e alla quale si manifesta dopo la Resurrezione. Il suo sguardo rassicura il fedele della salvezza raggiunta attraverso un sofferto percorso spirituale. La critica colloca il dipinto intorno al 1525 ca dopo il ritorno da Roma dell’Ubertini e 10 anni prima il quadro di Tiziano.
Cinquanta anni dopo circa un altro artista affronta lo stesso tema introducendo un compromesso tra le due raffigurazioni appena analizzate: la Maddalena penitente di Caravaggio del 1596-97 esposta alla Galleria Doria Pamphili di Roma, anche se dubbiosa è la mano del pittore seicentesco.
Una donna è rappresentata seduta con le mani raccolte sul grembo, ancora ricoperta da drappeggi damascati, i gioielli gettati a terra non ancora lontano dalla sua figura. Il suo sguardo non è rivolto né allo spettatore né al cielo ma è basso, contrito, piangente. Una lacrima, infatti, scende al lato del volto. L’ambientazione non è all’aperto, né anonima, ma il pentimento si svolge all’interno di una cella illuminata solo dalla luce che filtra da un’ ipotetica finestra posta in alto a destra, come nella consuetudine dei suoi dipinti. Maurizio Calvesi sottolinea come la luce, simbolo della salvezza divina, irradi la stanza sottraendola al buio, simbolo del peccato.
Siamo, quindi, testimoni di tre percorsi di redenzione che passa dall’estasi tizianesca all’appena avvenuta consapevolezza del proprio peccato del Merisi, all’espiazione ormai compiuta dell’Ubertini.