Carlo Magno sepolto in Val di Chienti

La tomba dell’imperatore non sarebbe in Germania e i resti della sua capitale si troverebbero a pochi chilometri da Macerata: queste le tesi di oltre 20 anni di studi del salesiano don Giovanni Carnevale

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La tomba di Carlo Magno non si troverebbe, come insegnano i libri di storia medievale, nella Cappella Palatina di Aachen in Germania, ma in Italia sotto la chiesa di San Claudio al Chienti nelle Marche in provincia di Macerata. Questa è la tesi di fondo di oltre venti anni di ricerche condotte dal salesiano don Giovanni Carnevale, professore di Latino, Greco e storia dell’arte, ed esperto di archeologia e storia medievale. Il volume “La scoperta di Aquisgrana in Val di Chienti”, pubblicato nel 1999 dall’editore Queen, rappresenta il cardine di questi studi. Richiamandosi a numerose fonti di epoca medievale, don Carnevale presenta quello che, a suo giudizio, sarebbe stato un clamoroso equivoco storico-archeologico, fornendo elementi che non sono prove inconfutabili, ma che meritano quantomeno di essere presi in considerazione. Aquisgrana, capitale dell’impero carolingio, non dovrebbe quindi essere identificata con Aachen, ma con una città fondata da Carlo Magno stesso nella valle del fiume Chienti, una “Nuova Roma” di cui oggi rimarrebbero solo rovine.

Tali resti sarebbero situati nel parco archeologico dell’antico centro romano di Urbs Salvia a pochi chilometri dalla chiesa di San Claudio. Secondo don Carnevale la “Nuova Roma” carolingia sarebbe stata costruita sulle rovine di Urbs Salvia che lo storico bizantino Procopio di Cesarea, transitato in Val di Chienti al seguito del generale Belisario negli anni della guerra fra Bizantini e Ostrogoti (535-553 d. C.), descrive come semi-abbandonata dopo i pesanti saccheggi del secolo precedente a opera dei Visigoti di Alarico. Il salesiano è convinto che una parte consistente delle rovine del parco archeologico non sia di epoca romana, ma risalga alla seconda metà dell’VIII secolo quando la Val di Chienti sarebbe diventata il cuore dell’impero di Carlo Magno. La sovrapposizione delle due città avrebbe quindi depistato gli archeologi.

Le ricerche di don Carnevale hanno avuto inizio nel territorio del Comune di Corridonia dall’osservazione della particolare struttura della chiesa di San Claudio al Chienti: l’edificio ha una pianta a croce greca iscritta in un quadrato con absidi semi-circolari lungo il perimetro: sui fianchi e sul lato orientale. La costruzione inoltre si presenta su due piani con una chiesa inferiore e una superiore. Infine la facciata è affiancata da due torri cilindriche. Gli storici dell’arte fanno risalire la struttura all’XI secolo, inquadrandola nel periodo romanico. Ma anni di studi e ricerche hanno convinto il salesiano che San Claudio sia stata fatta costruire da Carlo Magno alla fine dell’VIII secolo per essere residenza imperiale e Cappella Palatina a poca distanza da Aquisgrana.

La prova di questa teoria sarebbe la somiglianza fra la struttura di San Claudio e quella del palazzo omayyade di Khirbat al Mafjar, eretto fra il 743 e il 744 dal califfo Walid II presso la città di Gerico in Palestina. Gli elementi di contatto sono la campata centrale sormontata da una cupola e le altre otto coperte da una terrazza sorretta da otto crociere sottostanti. In Occidente, dopo la caduta dell’Impero Romano, non esistevano più maestranze in grado di soddisfare le richieste del re dei Franchi e futuro imperatore. Carlo dovette quindi far venire in Italia architetti e operai dal Medio-Oriente ormai islamizzato.

Stili arabi e bizantini influenzarono così la costruzione del palazzo imperiale e di tutti gli edifici principali della “Nuova Roma”, rendendo così impossibile, secondo il salesiano, identificarli con rovine della romana Urbs Salvia. Una contaminazione di cui, nelle Marche, resta traccia ancora oggi anche nelle chiese di San Vittore alle Chiuse e Santa Maria delle Moie in provincia di Ancona.

Un’altra prova presentata da don Carnevale è la chiesa della Santa Trinità di Germigny des Prés in Francia vicino Orleans, fatta erigere fra l’803 e l’806 da Teodulfo, abate di Saint Benoit sulla Loira e dignitario ecclesiastico alla corte carolingia. Numerose fonti di epoca medievale testimoniano come l’edificio fosse stato costruito “instar eius quae in Aquis est” cioè a somiglianza della Cappella Palatina di Aquisgrana. Ma la Cappella Palatina di Aachen è a pianta ottagonale e non quadrata. Non ha inoltre crociere a sostegno della terrazza di copertura. La chiesa di Germigny assomiglia invece moltissimo a San Claudio.

Da dove nasce allora l’equivoco storico? Don Carnevale attribuisce la colpa all’imperatore Federico I di Svevia, noto come il Barbarossa, che, per rilanciare l’immagine dell’Impero come autorità universale, avrebbe trafugato i resti di Carlo Magno da San Claudio, portandoli in Germania ad Aachen. Lì avrebbe fatto costruire quella che è passata alla storia come la Cappella Palatina (e che quindi risalirebbe al XII secolo), creando così il “mito” di Aachen come capitale carolingia. Nel pieno della lotta con il Papato, il centro dell’Impero, anche simbolicamente, non doveva essere più in Italia ma in terra tedesca.

Un altro indizio presentato dal salesiano è nella toponomastica della Val di Chienti e delle zone limitrofe. Sono presenti infatti ancora oggi termini riconducibili a documenti di epoca carolingia in cui era spiegata la gestione del territorio intorno alla capitale imperiale. Senza dimenticare il dialetto maceratese che, come alcune parlate delle Province di Rieti e Terni, porta tracce della presenza dei Franchi. Come evidenzia don Carnevale, gruppi di esuli franchi si stabilirono nell’Italia centrale intorno al 715 quando fuggirono dall’invasione dell’Aquitania da parte degli Arabi provenienti dalla penisola iberica. Essi, in base a un accordo tra l’abate di Farfa, Tommaso di Morienna, e il duca longobardo di Spoleto Faroaldo, furono dislocati in Sabina, lungo la Salaria, e nelle attuali Marche. Quest’area fu denominata “Francia” quando ancora quella comunemente conosciuta con quel nome era ancora chiamata “Gallia”. Il salesiano si spinge anche oltre, affermando che anche Pipino il Breve, re dei Franchi e padre di Carlo Magno, sarebbe sepolto in Provincia di Macerata e precisamente nella chiesa collegiata di San Ginesio.

È evidente che collocare la capitale dell’Impero di Carlo Magno in Italia significa alterare profondamente importanti vicende dell’Europa altomedievale. La “Nuova Roma” sarebbe finita in balia delle lotte fra i successori di Carlo ed entrata in contrasto con la Roma dei papi dove i pontefici stavano ponendo le basi per quello che sarebbe poi diventato lo Stato Pontificio. Avrebbe poi assunto di nuovo un ruolo da protagonista con gli imperatori della dinastia sassone Ottone I, Ottone II e Ottone III, salvo poi decadere in modo definitivo fino alla “Translatio Imperii” di Federico Barbarossa. Poi l’abbandono e l’oblio, favoriti anche dai pontefici romani ai quali avrebbe fatto comodo che il ricordo di un così importante centro politico imperiale, a poca distanza da Roma, svanisse per sempre.

Le ricerche di don Carnevale hanno avuto esiti sorprendenti e sono state accolte inizialmente dagli ambienti accademici con un clima di freddezza e scetticismo. Solo dopo anni di pubblicazioni e conferenze qualcuno ha cominciato a pensare che forse ciò che a prima vista sembrava così assurdo poteva avere un fondo di verità. Il 2013 ha segnato una svolta importante: una serie di rilevazioni tramite georadar ha portato alla scoperta, sotto l’ingresso di San Claudio, di una cripta funeraria che corrisponde al luogo di sepoltura di Carlo Magno così come è descritto in numerosi testi medievali. I dati di questa rilevazione sono stati illustrati nel volume “Il ritrovamento della tomba e del corpo di Carlo Magno a San Claudio”. La scorsa estate è stata tentata una trivellazione per arrivare alla cripta dall’esterno della chiesa (per non rovinarne il pavimento), ma un muro di detriti ha fermato l’equipe di ricercatori. La soluzione di questo enigma potrebbe essere letteralmente a portata di mano. A breve potremmo scoprire se don Carneval
e ha ragione o no, ma se così fosse c’è da chiedersi se saremmo pronti ad accettare di riscrivere una parte così importante della storia europea.

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Alessandro de Vecchi

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