Ho pensato che a me fossero chieste alcune riflessioni di carattere introduttivo, e quindi a modo più di invito alla riflessione che di trattazione vera e propria del tema.
Parto da una descrizione molto generica e teoreticamente poco impegnata di capitale sociale [CS]. Esso connota l’insieme dei legami che tengono unito un gruppo sociale. Al riguardo mi faccio alcune domande.
La prima: che cosa unisce due o più persone? Sappiamo, volendo essere molto schematici, che le risposte date in Occidente alla domanda suddetta sono state due: la decisione di unirsi; la natura stessa della persona umana di essere – per usare la famosa definizione di Aristotele – l’uomo un «animale politico».
Il paradigma sociale generato dalla prima risposta è il contratto [il contratto sociale]; quello generato dalla seconda è la comunità [coniugale, famigliare, cittadina…].
Nel primo paradigma la categoria centrale è la figura della regola; nella seconda, è la partecipazione.
All’interno dei due paradigmi il CS non denota più lo stesso fatto. Nel primo esso è costituito oggettivamente dal complesso di regole che governano il patto sociale; soggettivamente dall’osservanza delle regole.
Nel secondo paradigma, il CS è costituito da quel complesso di virtù che guidano l’uomo a compiere quelle azioni, a prendere quelle decisioni che favoriscono e garantiscono la partecipazione.
A questo punto possiamo e dobbiamo chiederci: quali delle due risposte è quella vera, e quindi capace di generare maggior capitale sociale e garantire una buona società? Mi limito a due considerazioni.
La prima. La visione contrattualistica è incapace, inetta a giustificare se stessa, per una ragione molto semplice: non esiste una regola capace di farmi rispettare le regole. Essa, in fondo, è costretta a rimandare ad un fatto che per sua stessa natura è dotato di logica anti-sociale: il bene il vantaggio proprio. E’ più utile associarsi che non associarsi.
Si introduce cioè nella compagine sociale un principio – l’utilità propria – che ne mette continuamente in pericolo la consistenza.
Ha scritto Leopardi: «non vi può essere niuna ragione per la quale sia giusto né ingiusto, buono né cattivo, l’ubbidire a qualsivoglia legge; e niun principio vi può avere sul quale si fondi il diritto che alcuno abbia di comandare a chi che sia, se l’idea del giusto, del dovere e del diritto, non innata o ispirata negli intelletti umani» [Zibaldone 3349-3350].
La seconda considerazione è che la visione partecipativa è più comprensiva di quella contrattualistica. Cioè: ciò che c’è di vero in questa, viene riconosciuto nel paradigma partecipativo, ma non viceversa. La visione contrattualistica non può rimandare oltre se stessa ad un fatto che generi il sociale, per definizione. La visione partecipativa può pienamente riconoscere il bene della regola come uno degli elementi costitutivi della società e del CS. Il vero è sempre più…inclusivo del falso.
In conclusione. Ciò che dice D. Hume «we never advance one step beyond ourselves» [cfr. Trattato della natura umana I pt. II, se2.6; Ed. Laterza, 1998, pag. 80], è vero o è falso?
L’esistenza, anzi la possibilità di un CS dipende dalla verità o falsità dell’affermazione humiana.
La seconda domanda: che cosa significa partecipazione? Col termine partecipazione denoto, in questo contesto, il fatto che ogni persona umana, vivendo e agendo con gli altri, gode di tutto ciò che risulta dall’azione comune, e al tempo stesso realizza il bene di se stesso.
Voglio dire che la persona umana “partecipando”, cioè agendo con gli altri, realizza un bene che è al contempo di tutti, e di cui essa gode nel suo sviluppo personale. La partecipazione genera cioè il bene comune.
E’ un bene, cioè in esso la persona, custodendo la sua dignità di persona, cammina verso il compimento di se stessa. E’ comune: è di tutti e quindi è di ciascuno. Possiamo dire che il CS è il bene comune, considerato, dal lato oggettivo, come il risultato dell’essere-con e del co-operare con gli altri. Dal lato soggettivo è il bene comune nel suo farsi, nel suo costituirsi.
Qual è il presupposto di questa visione? Quello implicito nella categoria di «prossimo». Ciò risulta molto chiaro nella parabola del samaritano. La domanda fatta a Gesù era molto precisa: chi è il mio prossimo? Chi ha la stessa fede religiosa? Chi appartiene alla stessa nazione?… E’ uno sguardo sull’uomo quello dello scriba che fa la domanda a Gesù, in quanto ha un attributo: è ebreonon è ebreo… Non si porta sul soggetto «uomo», ma sul «predicato». Gesù non accetta questa logica: prossimo è semplicemente l’uomo. Il samaritano ha capito questo.
Il prossimo è ogni persona umana in quanto partecipa della mia stessa umanità. Il concetto di prossimo indica la realtà più universale ed il fondamento più universale di ogni comunità umana. La comune partecipazione alla stessa umanità è il fondamento ed il principio di ogni comunità. E quindi il primo ed originario CS che noi mettiamo in comune è la nostra umanità, poiché essa è già co-munità. E quindi il contenuto oggettivo fondamentale del CS così inteso, sono i beni umani senza dei quali la persona non fiorisce nella sua umanità.
La terza ed ultima domanda: che cosa erode o dilapida il CS? La risposta ora non è difficile. Un atteggiamento di fondo, che è l’individualismo. Esso è la radice di ogni atteggiamento distruttivo del CS, perché rende impossibile il dinamismo che lo genera: la partecipazione. Agostino parla di una curvatura su se stesso. Non sto ora ad individuare le principali manifestazione dell’individualismo. Voglio invece soffermarmi su un altro fatto, e concludo.
Parto da una costatazione. L’umanità della persona esiste sempre nella forma femminile e nella forma maschile. L’humanum è bi-forme.
Orbene, dona molto a pensare il fatto che l’originaria espressione dell’ humanum abbia un carattere relazionale: l’uomo maschio scopre se stesso in relazione alla donna e reciprocamente. Lo avevano ben capito i Romani quando dicevano «prima societas in coniugo»; ed Aristotele quando afferma che il matrimonio-famiglia è anteriore alla polis. Verità espressa anche nella nostra Costituzione.
Non trattasi di una priorità cronologica, ma di carattere archetipico: il sociale uomo-donna è l’archè e quindi il paradigma di ogni sociale umano.
Ne deriva che la demolizione di questo alfabeto sociale, l’alfabeto maschile-femminile, cambierà radicalmente l’assetto del sociale. Lo rende inevitabilmente, nell’oggettività delle sue istituzioni, nel suo “spirito oggettivo”, l’incontro di individui nativamente irrelati. Stiamo perdendo la possibilità di dire il sociale umano, e quindi perfino di parlare di CS.
Finisco con un pensiero di K. Woytjla. «La capacità di partecipare all’umanità di ogni uomo costituisce il nucleo di ogni partecipazione e condiziona il valore personalistico di ogni agire ed essere “insieme con gli altri”».