«Cristiani e uomini di buona volontà sono chiamati a lottare per l’abolizione della pena di morte e per l’ergastolo, una pena di morte coperta».
Papa Francesco, con la schiettezza che gli è propria, ha lanciato forte il messaggio alle Nazioni di tutto il mondo: non può dirsi giusto lo Stato che punisce chi sbaglia gettando le chiavi della cella che lo ospita. Pena che equivale ad una fine lenta e inesorabile, e per questo se possibile ancor più crudele d’un’iniezione letale o d’un cappio stretto al collo, ha spiegato il Pontefice, che non a caso, con uno dei suoi primi atti, ha voluto abolire proprio l’ergastolo dal codice penale vaticano.
I numeri sono l’immagine della drammaticità della questione. Le statistiche dicono che al 31 dicembre 2012 gli ergastolani presenti nelle carceri italiane erano 1.581, quattro volte di più di vent’anni prima. C’è di più: da anni in Italia esiste, nei fatti, un altro “fine pena mai”. Si chiama “ergastolo ostativo” ed è quella forma di detenzione a vita che impedisce al detenuto autore di gravi reati (associativi, o di stampo mafioso), e che abbia deciso di non collaborare con la giustizia (ma può essere impossibilitato a collaborare), di usufruire di qualsiasi beneficio o sconto: nessun permesso premio, né tantomeno semilibertà o affidamento in prova ai servizi sociali. E ciò sebbene il 9 luglio scorso la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia affermato il principio per cui l’ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata o di revisione della pena sia una violazione dei diritti umani, poiché l’impossibilità della scarcerazione è un trattamento degradante e inumano contro il prigioniero.
Eppure, già Aldo Moro nel 1976, in una lezione universitaria, invitava alla riflessione: «La pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati: è la risposta calibrata dell’ordinamento giuridico e, quindi, ha tutta la misura propria degli interventi del potere sociale, che non possono abbandonarsi ad istinti di reazione e di vendetta, ma devono essere pacatamente commisurati alla necessità, rigorosamente alla necessità, di dare al reato una risposta quale si esprime in una pena giusta».
In 40 anni, nulla o quasi è cambiato. E ieri come oggi l’ergastolo non permette di scontare effettivamente la pena: se scontare significa estinguere un debito, in questo caso il debito resta pendente sempre e intero.
Appare evidente, allora, che soltanto il giorno in cui la pena “di morte lenta” sarà cancellata si farà finalmente ammenda di un furto sacrilego: quello della speranza. Per riuscire in ciò occorrerà ripensare l’organizzazione della giustizia, garantire la certezza della pena, colmare le carenze a livello educativo e rieducativo, recuperare il principio della responsabilità e del risarcimento, adoperarsi affinché le carceri non siano solo dei ghetti dove rinchiudere lo scarto della società. Ma soprattutto sarà necessario ritrovare misericordia e coscienza. «Noi siamo miseria e per conseguenza ritorniamo sempre a mancare», affermava il beato Giacomo Cusmano. Aggiungeva: «Se vogliamo uscire da questa condizione, conviene non disperare, ma rimetterci sempre nella misericordia di Dio, dalla quale solamente possiamo sperare la grazia».
+ Vincenzo Bertolone