La tragica realtà dell’Ebola non è soltanto un’emergenza sanitaria ma in primo luogo umana e antropologica. Per superarla è necessario aiutare le popolazioni colpite a vincere la paura del contatto umano e del contagio. Di grande utilità potranno essere le campagne di prevenzione, specie se fatte tra i bambini.
La delicatissima tematica è stata affrontata a colloquio con ZENIT, dal dottor Roberto Ravera, primario della struttura complessa di psicologia all’ASL 1 di Imperia e presidente di FHM Italia Onlus, con sede a Sanremo, attraverso la quale è stato coinvolto, con l’interessamento del padre saveriano Bepi Berton (1932-2013) in un progetto di assistenza sanitaria in Sierra Leone.
Dottor Ravera, come è nata la sua esperienza in Sierra Leone?
Iniziai ad occuparmi una decina di anni fa di bambini soldato: erano centinaia e centinaia ed avevano bisogno di qualunque assistenza. Da allora sono nati diversi progetti: abbiamo costruito una comunità d’accoglienza ed aperto degli ambulatori medici nei centri più poveri, sia in alcuni villaggi che nella capitale Freetown. Ci siamo poi presi carico delle carceri minorili. Abbiamo circa 25 operatori tra medici, infermieri, assistenti sociali, educatori ed insegnanti e portiamo avanti un progetto che, fondamentalmente è un progetto di salute mentale, quindi riguardante in primo luogo il benessere psicologico dei minori, tuttavia, dobbiamo svolgerlo in un paese dove c’è una grande diffidenza culturale nei confronti del medico o dello psicologo. Tutto questo programma che dura da tempo, si è recentemente scontrato con la grande tragedia dell’Ebola. Abbiamo dovuto quindi chiudere gli ambulatori ed adeguarci ad una situazione di gravissima emergenza che c’è nel paese e il nostro staff si è recentemente convertito attualmente in un progetto di prevenzione all’Ebola.
Che conseguenze concrete ha portato l’epidemia di Ebola in Sierra Leone?
Alcuni mesi fa avevo sottolineato al Ministero della Sanità sierraleonese l’emergere di quello che poi sarebbe avvenuto e che è stato preso sotto gamba. Vorrei, però che non si dimenticasse una cosa: la Sierra Leone è un paese che non ha un servizio sanitario all’altezza, anzi, sarebbe un servizio sanitario quasi inesistente, se non fosse per gli interventi della cooperazione internazionale. Essendo già gravemente deficitario in condizioni standard, figuriamoci in una situazione grave come quella dell’Ebola, per il quale sono morti parecchi operatori sanitari per la mancanza di adeguate protezioni. A ciò, si aggiunga che una città di 2 milioni di abitanti come Freetown non ha servizi igienici, né fogne, né l’acqua corrente nelle case. Vorrei anche ricordare che oggi si muore di Ebola ma si continua anche a morire, e in misura maggiore, di parto, di malaria o di tifo, proprio perché la gente non va negli ospedali. Esiste, è vero, specie nei villaggi, una cultura che fa sì che talvolta le persone, non avendo un riferimento sanitario, si rivolgono agli sciamani e agli stregoni: dover pagare qualunque prestazione sanitaria mette a disagio persone che guadagnano un euro al giorno. Il problema, quindi, è di una gravità inaudita e allo stato attuale è difficile individuare una soluzione a tutto questo.
In Sierra Leone e nei paesi circostanti, quindi, l’Ebola non è un’emergenza puramente sanitaria?
No, infatti dal punto di vista antropologico c’è un cambiamento nelle persone che vivono nelle stesse condizioni in cui vivevano durante la guerra ma per lo meno esisteva una socialità, il nemico era visibile, le zone da evitare erano chiare. Oggi quel nemico non c’è più, le persone hanno imparato a non toccarsi, c’è una trasformazione, un’ansia generale spaventosa che colpisce soprattutto i bambini. Le scuole sono chiuse da mesi, i bambini della nostra comunità vivono ormai chiusi dentro le mura del nostro centro, giocano tra di loro, non escono più. Com’è possibile che centinaia di migliaia di bambini debbano vivere un incubo di questo tipo? Mi chiedo anche come possa l’Occidente non considerare – prima ancora di preoccuparsi del fatto che il virus si possa diffondere in Europa – il fatto che il problema fondamentale è che laggiù sussiste ormai una situazione in cui si è perso il controllo.
La mia preoccupazione sono le trasformazioni mentali in una popolazione che è già stata provata da dodici anni di guerra e adesso sta vivendo quest’incubo con la sensazione di essere stata abbandonata. Anche molti operatori occidentali che un tempo si occupavano di assistenza, se ne sono dovuti andare. Questo senso di solitudine, di essere abbandonati è frequente ed è fortissimo.
Un grosso problema sarà il dopo-Ebola e non mi riferisco soltanto alle persone che avranno perso i loro cari ma anche alla ricostruzione dell’anima delle persone che, dopo aver vissuto dodici anni di guerra, poi dieci anni di pace, con la ricostruzione delle speranze, hanno visto perdere tutto. L’economia sierraleonese è crollata, la gente vede aumentare i prezzi dei generi di prima necessità, nessuno lavora più, è come se un mondo si fosse cristallizzato e paralizzato. Ma la vita della gente non si cristallizza e non si paralizza, la gente deve respirare, deve toccarsi, deve vivere. È per questo che ritengo che quello che è successo nell’Africa occidentale, dal punto di vista antropologico sia un’esperienza unica nel suo genere.
Quali sono, a suo avviso, i migliori metodi di prevenzione?
Sulla prevenzione abbiamo lavorato molto, andando nei villaggi e spiegando il problema in modo particolare ai bambini, che sono più ricettivi e ‘plastici’ degli adulti e riescono in qualche modo a correggere e ad acquisire certi comportamenti come quello di lavarsi spesso le mani, di non mangiare carne, di andare dal medico se avvertono sintomi sospetti. Questo nostro programma ha avuto successo e il Ministero ci ha chiesto di collaborare anche su altri distretti della Sierra Leone, tuttavia noi non abbiamo i mezzi per farlo.
Il rischio della diffusione di un’epidemia di Ebola anche in Europa è reale?
Nessuno vuole sottovalutare il rischio e il pericolo connesso a questa malattia ma in Europa esiste un servizio sanitario che è comunque in grado di fronteggiare la situazione. È chiaro che esistono dei rischi soprattutto in un’eventuale fase iniziale. Non dimentichiamo, poi, che noi viviamo in condizioni igienico-sanitarie nettamente migliori di quelle che si possono riscontrare in Sierra Leone. Quindi, pensare che qui possa esserci una pandemia di quel tipo è ben difficile. Oltretutto, in un paese non lontano come la Nigeria, i casi di Ebola sono stati circoscritti, perché quel paese gode di un sistema sanitario e di protezione decisamente migliore della Sierra Leone. A maggior ragione ciò avverrebbe qui in Europa.