Gli uomini sono costituzionalmente incapaci di eliminare i conflitti e le violenze fra di loro ma una comunità isolata e protetta ha deciso di risolvere il problema alla radice: le nuove generazioni vengono allevate in modo assolutamente uniforme, docili e rese incapaci di provare emozioni grazie alla somministrazione giornaliera di un potente inibitore. Un solo uomo, the Giver, ha memoria del passato e ora ha avuto l’incarico di trasferire le sue conoscenze al giovane Jonas. Questi viene a sapere di quali crudeltà sia capace l’uomo se lasciato a se stesso ma finisce anche per apprezzare la bellezza degli affetti familiari e dell’amore. Inizia a riflettere sul modo di fuggire da quella gabbia apparentemente dorata ma in realtà crudele…
Le utopie hanno sempre avuto il loro fascino, perché semplificano la nostra visione del mondo, costituiscono dei modelli di riferimento a scopo educativo, rappresentano un invito a “tendere verso” quando l’utopia è positiva oppure a “fuggire da” quando hanno connotazioni negative. Si tratta di scenari quasi sempre imperfetti perché rifuggono dalla complessità del reale e rischiano di pervenire a conclusioni fuorvianti. Nell’universo cinematografico il racconto di fantascienza è stato spesso impiegato per costruire scenari utopistici (Gattaca, contro la fecondazione artificiale, è stato un magnifico esempio) utili per riflettere su “cosa succederebbe se”, per metterci in guardia da certe tendenze presenti nella realtà di oggi.
Se nell’isola Utopia di Tommaso Moro, per evitare conflitti, era stata abolita la proprietà privata, tutti lavoravano ma solo per i beni necessari alla propria esistenza e non c’erano diseguaglianze, la soluzione adottata in questo The Giver è naturalmente più sofisticata e viene utilizzato tutto ciò che può offrire la tecnologia moderna. Gli abitanti vengono abituati a iniettarsi giornalmente nelle vene degli inibitori di pulsioni e di memorie, tutti sono molto gentili l’un l’altro, chiedendosi reciprocamente scusa alla minima occasione. I figli sono generati artificialmente per evitare che l’attrazione fra uomo e donna, ormai sopita, possa generare conflitti e gelosie. Il linguaggio è stato purificato: la parola amore è vietata, la propria casa si chiama abitazione, la pena di morte viene chiamata congedo. I ragazzi ricevono un percorso formativo assolutamente identico per evitare che si creino diseguaglianze. Raggiunta la maggiore età, è il consiglio degli anziani che decide quale sarà la loro professione in base alle attitudini che avranno manifestato. Ogni singolo spostamento nella città è monitorato da una fitta rete di telecamere.
In questo contesto si inserisce la storia di Jonas, un ragazzo destinato a ereditare le conoscenze dal “donatore”, l’unico uomo della comunità incaricato di custodire le memorie del passato. Jonas scopre in questo modo gli orrori della guerra, le crudeltà di cui l’uomo è stato capace ma anche la bellezza degli affetti familiari e dell’amore (le immagini dal bianco e nero passano al colore, espediente già adottato in Pleasantville). Jonas smette, con un inganno, di iniettarsi l’inibitore giornaliero e riprende a provare emozioni: scopre con orrore che come prassi corrente vengono soppressi i bambini con difetti e gli anziani non più autonomi. Inizia da questo momento a organizzare la sua fuga, portando con se quel neonato che doveva venire soppresso.
E’ questo il punto più debole del racconto che rischia di portare a conclusioni che sono frutto di una visione antropologica fuorviante. Secondo la tesi che il film porta avanti la nostra essenza è costituita dai sentimenti. L’uomo privo di sentimenti è incapace di giudicare cosa è il bene e cosa è il male. Così come non riesce a comprendere che l’uccisione di un neonato sia un male, allo stesso tempo è solo “dall’amore che nasce la fede e la speranza” dice il donatore (the Giver, interpretato da Jeff Bridges). Gli risponde il capo della comunità (Meryl Streep) con una visione pessimistica dell’uomo, incapace di scegliere il bene perché troppo debole di fronte alle sue inclinazioni ed irrimediabilmente egoista.
Il supporre che senza i sentimenti si perda la capacità di esprimere giudizi etici corrisponde al trascurare le altre componenti fondamentali dell’uomo: la ragione e la volontà. I sentimenti danno colore e slancio alla nostra vita ma è con il nostro intelletto che riconosciamo ciò che è giusto e ciò che sbagliato e poi agiamo di conseguenza con la nostra volontà, anche quando i nostri atti non sono accompagnati da particolari sentimenti. La visione del film non farebbe che arrabbiare non solo Emmanuele Kant con i suoi imperativi categorici ma anche tutti coloro che credono nell’esistenza di una legge naturale, cioè nella capacità di stabilire dei comportamenti etici in base alla sola ragione e a chi crede che l’esistenza di Dio possa esser conosciuta riflettendo sul creato e le creature.
Gli assunti del film sono più comprensibili nell’ottica della fede luterana. Il dialogo già citato fra Meryl Streep e Jeff Bridges appare paradigmatico: Meryl vede l’uomo incapace di superare il male che è in lui e Jeff, rispondendo che è l’amore che genera la fede, sembra ispirarsi al tema della fede fiduciale.
Il film può contare sull’ottima interpretazione di Jeff Bridges (più trattenuta quella di Meryl Streep) ma ha il difetto di non riuscire a coinvolgere, incapace di sviluppare un forte contrasto fra il mondo apatico della comunità dell’utopia e il calore del mondo degli affetti umani: il contrasto viene sviluppato prevalentemente a livello verbale.
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Titolo Originale: The Giver
Paese: USA
Anno: 2014
Regia: Phillip Noyce
Sceneggiatura: Michael Mitnick Robert B. Weide
Produzione: AS IS PRODUCTIONS, TONIK PRODUCTIONS, WALDEN MEDIA, THE WEINSTEIN COMPANY
Durata: 97
Interpreti: Brenton Thwaites, Meryl Streep, Jeff Bridges, Katie Holmes
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