“Dare un nome al dolore – elaborazione del lutto per l’aborto di un figlio” è il titolo del libro di Benedetta Foà, appena uscito per i tipi di Effatà Editrice. Psicologa clinica, counselor, scrittrice, autrice di diverse pubblicazioni sul tema dell’elaborazione del lutto post-aborto, co-autrice del libro “Maternità interrotte – Le conseguenze psichiche dell’IVG” (San Paolo 2011), la dott.ssa Foà propone nel suo nuovo libro un percorso terapeutico scientificamente validato al fine di affrontare e risolvere le conseguenze psicologiche di una sofferenza che spesso è ancora taciuta: lo stress post-abortivo.
Dott.ssa Foà, come è nata l’idea di questo libro?
Dott.ssa Foà: Questo libro nasce dal desiderio sincero e profondo di aiutare la donna: la donna in quanto essere umano, in quanto persona dotata di caratteristiche peculiari e fragilità specifiche, ma soprattutto in quanto madre in potenza. In particolare, il libro matura dopo alcuni anni di counseling con tante donne e mamme che, dopo avere abortito (spontaneamente o volontariamente) il proprio figlio, sono state male fisicamente e psicologicamente. Attraverso l’accoglienza, l’ascolto empatico, l’astensione dal giudizio e la condivisione del dolore abbiamo percorso insieme un tratto del viaggio della vita con uno scopo preciso: uscire dal nero tunnel della depressione causata dal lutto irrisolto.
L’interruzione volontaria di gravidanza è un fattore di rischio per la salute mentale della donna?
Dott.ssa Foà: Sì, lo è. Io ne sono convinta, e ci sono ormai molti studi che lo confermano. Uno di questi è stato citato dal prof. Tonino Cantelmi nella prefazione del libro, ed è del dicembre 2011. Il British Journal of Psychiatry ha presentato un nuovo studio, che costituisce ad oggi la più grande stima quantitativa disponibile nella letteratura mondiale relativamente ai rischi per la salute mentale associati all’aborto. Il campione della metanalisi ha compreso 22 studi e 877.181 partecipanti. Lo studio ha concluso che le donne che hanno subìto un aborto presentano un rischio maggiore dell’81% di avere problemi di salute mentale. È stato inoltre dimostrato che quasi il 10% di incidenza di problemi di salute mentale può essere direttamente attribuibile all’aborto. Ma ci sono tanti altri studi, pubblicati negli Stati Uniti da Reardon, in Canada da Ney, da Gissler, Hemminki, Lonnqvist in Finlandia, solo per citarne alcuni, che confermano i risultati della suddetta metanalisi.
Come si manifesta lo stress post-aborto?
Per quello che ho potuto constatare, la donna dopo l’intervento abortivo non rimane più la stessa. Necessariamente si deve incassare un colpo enorme: un trauma. Il trauma è tale che si vive una sorta di schizofrenia tra due diverse rappresentazioni del sé: l’immagine che si aveva della propria persona prima dell’evento aborto, e l’immagine nuova di sé, che non corrisponde più a quella precedente all’aborto, e che è, di fatto, quella reale. La donna, dopo aver compiuto una scelta decisiva, pensa, erroneamente, di poter andare avanti come se l’evento aborto non fosse mai accaduto. Ma la coscienza, prima messa a tacere, si rifà viva. Infatti è proprio la morte del figlio che rende la donna consapevole del fatto che in precedenza il bambino era vivo; e che era un bambino, non un girino! Il vissuto di Annie, una delle protagoniste del libro, aiuta bene a chiarire questo aspetto:“Mi sembra di vivere due vite parallele, una normale, in cui vado a lavorare, accudisco la casa, curo marito e figli, e l’altra piena d’orrore, di sensazioni di vuoto che cerco di staccare dal resto della mia vita. Ma entrambe queste vite sono inquinate dal malessere di aver perso un figlio per colpa mia. Il male che ho dentro è diventato anche male fisico”. Tutte le madri che vengono a cercare aiuto per elaborare il lutto soffrono di quella che è stata individuata come la sindrome da stress post-aborto (PSA). Questa sindrome è caratterizzata dalla presenza di numerosi sintomi e può essere classificata tra i disturbi post traumatici da stress (PTSD), dove lo stress è evidentemente determinato dall’avvenuta interruzione di gravidanza. Il trauma è una situazione di impotenza, è una circostanza in cui la violenza d’impatto dell’evento esterno è tale da causare una lacerazione di quella barriera protettiva che di norma respinge efficacemente gli stimoli dannosi. Questo porta ad una scissione psichica, depressione, ansia, pianto continuo, incapacità a concentrarsi, umore irritabile, pensieri negativi, abuso di sostanze (sonniferi, ansiolitici, antidepressivi, droghe, alcol).
Molti pensano che l’aborto volontario sia un problema che riguarda solo la madre…
Dott.ssa Foà: Pensare che l’interruzione di gravidanza volontaria sia un problema che riguarda solo la madre – e il bambino – corrisponde ad una visione semplicistica della realtà. Il concepimento di un bambino coinvolge innanzitutto un uomo e una donna, che insieme al bambino sono i protagonisti della tragedia: ma non si devono dimenticare gli eventuali fratelli dei bambini abortiti e naturalmente tutti coloro che hanno giocato qualche ruolo nella decisione di abortire o che hanno collaborato all’aborto, cioè i parenti stretti, il personale medico e paramedico e, in ultima analisi, la società nel suo complesso (ciò vale in particolare nel caso delle minorenni, ma non solo). La legge 194/78, che ha legalizzato in Italia l’interruzione volontaria della gravidanza, ha di fatto abbassato la consapevolezza della gravità dell’interrompere una gravidanza in corso e mette persone come medici, infermieri ed ostetriche in condizione di collaborare alla decisione di abortire presa da altri. L’impatto dell’aborto sugli operatori sanitari sta diventando sempre più evidente, il numero degli obiettori di coscienza sempre maggiore e molteplici sono le dichiarazioni di medici che, dopo aver effettuato per anni interventi di interruzione di gravidanza, dichiarano di non essere più disposti a farlo: per citare un caso italiano tra i molti, ricordo Piero Giorgio Rossi, ginecologo che dal 1992 ha effettuato circa 1000 aborti presso la clinica Mangiagalli di Milano, per diventare, dopo vent’anni di pratica clinica, obiettore di coscienza e strenuo oppositore dell’aborto; o il defunto Bernard Nathanson, che dopo oltre 60.000 aborti effettuati negli Stati Uniti ed un passato di attivista a favore delle organizzazioni abortiste divenne una delle voci più forti del movimento pro-life americano.
Cos’è la “sindrome del sopravvissuto”?
Dott.ssa Foà: È una sindrome da pochi studiata, di cui è stata teorizzata da tempo l’esistenza e della quale possiamo ben immaginare la vastità di proporzioni: i dati dicono che una famiglia su cinque nel mondo ha vissuto un aborto. Grazie agli studi di Ney, che è colui che l’ha evidenziata tra i primi, si stanno raccogliendo dati su persone che hanno fatto esperienza di tipi diversi di sindrome del sopravvissuto. Se ne sono individuati molti, tra cui: situazioni di bambini che statisticamente hanno poche possibilità di sopravvivere alla gravidanza; bambini i cui genitori hanno pianificato l’interruzione di gravidanza; bambini i cui fratelli sono stati abortiti prima/dopo di loro; bambini che sanno che avevano molte possibilità di essere abortiti perché handicappati o del sesso sbagliato o perché nati fuori dal matrimonio; bambini che sarebbero stati abortiti se solo i genitori avessero potuto; bambini che non sono stati abortiti solo perché i genitori hanno tardato tanto a decidere e non lo hanno fatto solo perché la gravidanza era oltre il termine legalmente consentito per l’aborto; bambini il cui gemello è stato abortito; bambini che sono sopravvissuti durante l’aborto e
ffettuato tramite isterectomia o soluzione salina (in quest’ultimo caso un grande e lungo ago viene inserito tramite la parete addominale della donna e nel sacco amniotico: si aspira un po’ di liquido amniotico e si inietta una soluzione salina concentrata, con conseguente avvelenamento acuto da sale, che corrode, brucia lo strato esterno della pelle del bambino. Disidratazione, emorragia del cervello, gravi danni agli organi, procurano una grandissima sofferenza nell’embrione portandolo ad una morte lenta e con atroci dolori, indicibile sofferenza, spasmi e contrazioni. L’agonia dura alcune ore). Dalle situazioni suddette emergono enormi conflitti che hanno ripercussioni sull’individuo e di conseguenza sulla società.
Le ricerche condotte da Ney, psichiatra infantile e psicoterapeuta canadese, indicano che nei Paesi in cui ci sono stati livelli alti di aborto sussistono maggiori difficoltà economiche, inefficienze governative e disagi sociali. Uno studio relativo ad una provincia canadese dove c’è il più alto tasso di aborti ha verificato che anche il tasso di abuso sui bambini è il più alto. Questa ricerca conferma che l’aumento di abuso sui bambini in Canada è da correlare all’introduzione dell’aborto libero. Allora è lecito chiedersi: cosa succede alla persona-figlio sopravvissuto ad un aborto? I figli che ce l’hanno fatta e quindi sono venuti al mondo, come stanno? Come vivono nel profondo le relazioni con i genitori e con gli altri?
Il tema è complesso: come abbiamo visto, la sindrome da sopravvissuto all’aborto colpisce sia coloro che sono sopravvissuti ad un tentativo di aborto, sia fratelli di bambini abortiti dalla madre. Questi bambini sono afflitti dal senso di colpa per il fatto di essere vivi ed hanno problemi esistenziali originati da una domanda fondamentale, anche se non sempre consapevole: “Mamma, se ci fossi stato io al posto suo, avresti ucciso me?”. Come difendersi? I bambini sanno che non possono sopravvivere senza genitori e di conseguenza faranno di tutto per compiacerli, anche a scapito delle loro scelte. In questo modo, i bimbi si rendono capri espiatori di se stessi per evitare di essere maltrattati o ignorati. A causa di questa situazione si pongono molteplici domande: “Come faccio a fidarmi di mia madre e di mio padre? Loro dicono di amarmi, ma cosa hanno fatto al fratellino? Allora che cos’è l’amore? Come è possibile credere all’amore dei genitori?” Questi dubbi sono un elemento di conflitto interiore e disturbano la crescita ed ogni progetto di vita: il senso di colpa paralizza la volontà in modo inconsapevole. Chi soffre in modo grave di questa sindrome non riesce a portare avanti la propria vita, non si realizza e resta come bloccato senza darsi ragione del perché.
Da quello che ha detto finora, si evince che il consenso informato firmato dalle donne che si accingono a sottoporsi all’IVG non è realmente “informato”…
Dott.ssa Foà: Ormai si firmano consensi informati per qualunque cosa, ma non ho mai visto nulla che informasse le donne su cosa sia lo stress post-aborto prima che esse abortissero. Certo è che se il pensiero di base è quello che non ci sia nessuno stress o trauma per la donna dopo la morte del proprio figlio abortito, sarà difficile che venga sottoposto alle donne un documento che attesta che invece esso si verifica…
Qualche mese fa chiesi ad un’amica sudamericana di tradurmi in spagnolo un mio scritto. Ne rimase colpita: era un argomento che non conosceva. Poco dopo restò gravida del quarto figlio. Era seriamente agitata perché gli altri tre erano comunque piccoli. Questa donna ha avuto la fortuna di essere sostenuta dal marito nei suoi momenti di ambivalenza, ma ogni volta che mi incontra mi dice: “Ho pensato al tuo scritto e non ho abortito”. Dire la verità è a mio avviso il modo giusto per informare le persone e renderle consapevoli.
Tutti hanno il diritto di essere informati, di sapere che dopo l’aborto di un figlio la vita non è più la stessa, che la parte gioiosa di noi si frantuma e che non potremo andare avanti nella nostra vita fino a quando non affronteremo questo dolore, riconciliandoci con noi stesse, con nostro figlio e potendo, anche con Dio.
Spesso le donne dopo un aborto si tengono tutto dentro… Dare un nome al dolore: primo passo per l’elaborazione del lutto post-abortivo?
Dott.ssa Foà: Il prof. Passerini, psichiatra e psicoterapeuta oltre che fondatore della scuola di Psicoterapia con l’Esperienza Immaginativa, nella presentazione del libro dice: “Riflettendoci, scorgo tutt’a un tratto che la maggior parte delle donne e degli uomini che si sono rivolti al mio aiuto professionale per tutt’altri motivi e che avevano vissuto l’esperienza di un aborto, ad un certo punto del percorso hanno permesso al suo fantasma di affiorare ma quasi sempre per inciso magari come associazione d’idee durante l’analisi di un’Esperienza Immaginativa oppure nel movimento regressivo del recupero di una memoria intrinseca. Anche coloro che lo avevano razionalizzato con giustificazioni esistenziali o come ‘l’eliminazione di un tessuto, poco più che un girino’”. Questo ci dice che l’evento aborto non è sempre riconosciuto subito come traumatico. Andare in terapia e non affrontare il problema aborto, secondo me vuol dire negare una sofferenza troppo grande, e non una sofferenza inesistente, come potrebbe sembrare. Sono convinta che dare il nome giusto alle cose semplifichi la vita e porti prima alla guarigione.
Lei definisce il suo procedimento di elaborazione del figlio mai nato come metodo “Centrato sul bambino”. In che senso?
Dott.ssa Foà: Ci sono voluti anni di studi intensi prima di arrivare all’elaborazione di quello che oggi chiamo metodo “Centrato sul bambino”. Esso nasce dal desiderio di superare i pregiudizi, la condanna morale, per proporre invece qualcosa di significativo per il benessere delle persone. È risaputo che l’aborto è da molti considerato un’esperienza traumatica, che nessuno vorrebbe fare, se non costretto. È nota d’altro canto anche l’omertà legata a questo evento: le donne si tengono tutto dentro. Avere qualcuno con cui parlare del proprio aborto con sincerità, sentendosi accolta e non giudicata è un elemento essenziale e per nulla scontato. Eliminare l’omertà è un punto importante del metodo. È noto altresì quanto sia forte il rapporto d’interdipendenza tra madre e figlio, un dato incontestabile ben conosciuto dagli operatori, che si fanno quotidianamente carico delle ansie delle madri che si trovano nella situazione di ambivalenza fra il voler tenere e il non voler tenere il figlio. Per una madre è importante tanto prendersi cura del figlio quanto parlare di lui. Le ansie sono ancora più forti nelle donne che hanno abortito: non hanno mai visto il figlio e non possono parlare di lui con nessuno. Esprimere i sentimenti fino a quel momento negati attraverso l’utilizzo di oggetti, di scritti, d’incontri per mezzo di Esperienze Immaginative (Passerini 2009) è il punto nodale del metodo. Alla fine del percorso terapeutico, durante il quale il figlio abortito è stato finalmente ri-umanizzato mediante l’attribuzione di un nome e di un volto, è possibile esprimergli sentimenti di amore e infine lasciarlo andare. La necessità di lasciarlo andare è cruciale perché, dopo l’evento aborto, la mente e il cuore della donna e/o dell’uomo sono fissati sull’esperienza traumatica vissuta e sembra impossibile smettere di pensare al figlio perduto. Il metodo suddetto (che ha attualmente due modi diversi di messa in atto: singolarmente o in gruppo) ha infatti lo scopo di far intravvedere il figlio mai visto – ma tanto pensato – fino a lasciarlo andare definitivamente e dirgli addio, nel modo più sereno possibile.
***
Fonte: vitanascente.blogspot.it