La battaglia di Meriam: "Tornerò in Sudan per difendere le vittime di persecuzione religiosa"

La cristiana sudanese, condannata per apostasia e liberata dopo una mobilitazione internazionale, annuncia il suo nuovo impegno a favore di chi “sta in condizioni peggiori di quelle in cui ero io”

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La paura di una morte quasi certa, il trauma dei mesi trascorsi in catene dietro le sbarre e delle persecuzioni subite non hanno buttato a terra Meriam Yahya Ibrahim, la cristiana sudanese condannata a morte per apostasia, poi salvata e liberata grazie ad una massiccia mobilitazione internazionale e all’intervento del governo italiano.

La donna – madre di due figli di cui una partorita in carcere – vuole tornare in Sudan per battersi in favore delle vittime di persecuzione religiosa. “Ci sono altri che, in Sudan, sono in condizioni peggiori di quelle in cui ero io”, ha dichiarato infatti alla Bbc negli Usa, dove sta chiedendo asilo.

“Vorrei tornare in Sudan un giorno”, afferma e rievoca poi la sua dolorosa vicenda quando fu condannata alla pena capitale da un tribunale di Khartum per aver violato la legge islamica sposando un uomo cristiano, lei che era figlia di un musulmano (in realtà il padre era andato via di casa quando Meriam aveva soli 3-4 anni e lei era stata cresciuta come cristiana dalla madre).

“Il giudice mi diceva che era necessario che mi convertissi all’islam”, ricorda la giovane, “questi avvertimenti mi fecero capire che sarei stata condannata a morte”. “È triste – ha aggiunto – ma tutto ciò è avvenuto nell’ambito della legge: invece di proteggere la gente, la legge la danneggia”.

Fortunatamente una campagna internazionale guidata dalla ong Italians for Darfour ha portato alla scarcerazione della cristiana e alla revoca della condanna in giugno. Meriam con la sua famiglia rimase poi bloccata per giorni nell’Ambasciata americana in Sudan a causa di cavilli burocratici legati ai documenti presentati all’aeroporto di Khartum nel momento in cui si accingeva a lasciare il paese.

Tuttavia anche questo ostacolo fu superato e la Ibrahim, insieme al marito Daniel e i suoi due figli piccoli, potè abbandonare il Sudan alla volta degli Stati Uniti. Prima però fece tappa in Italia, dove giunse con un aereo di Stato. Accolta dal premier Matteo Renzi, realizzò anche il desiderio, a luglio, di incontrare Papa Francesco.

Una grande testimone di fede del nostro tempo quindi. D’altronde lei stessa in un’altra intervista dei giorni scorsi a Fox News Network, ha dichiarato: “Fede significa vita. Se non si ha fede, non si è vivi”. 

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ZENIT Staff

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