Scorrendo gli articoli pubblicati su ZENIT in un caldo giovedì d’agosto, capita di impattare con lo sguardo sulle dichiarazioni del noto biologo Richard Dawkins, secondo il quale sarebbe “immorale” mettere al mondo bambini con sindrome di Down. Come lama che trafigge il cuore, le parole penetrano attraverso gli occhi di mamma e provocano “sconcerto, dolore e tanta sorpresa”. È così che Mena Dessolis, originaria di Mamoiada, paese inerpicato nell’entroterra sardo, decide di ritagliare un po’ di tempo ai suoi impegni quotidiani e scrivere alla redazione per testimoniare la sua esperienza di mamma di tre figli, tra i quali l’ultimo, Gabriele, con sindrome di Down.
Non è mossa da alcuna retorica. Ciò che afferma, lo fa alla luce di un trascorso di vita passato all’insegna della forza e della dolcezza proprie di ogni madre. Dopo due figlie oggi poco più che ventenni, Mena ha avuto, quattordici anni fa, Gabriele. È lui il motivo della sua reazione all’articolo sul perentorio e imprevidente tweet dello scienziato britannico. Una reazione gravida di dolore, “perché – spiega – non si ha minimamente coscienza di cosa sia la sindrome di Down, la quale comporta sì tante difficoltà, ma ‘stranamente’ anche tantissima ricchezza e amore”.
Dopo un primo momento di stupore, a mente fredda Mena riconosce tuttavia che l’atteggiamento di Dawkins è solo l’espressione più tristemente sincera di una cultura diffusa, quella in cui “farsi una posizione, ‘essere qualcuno’ siano i traguardi di un uomo imprigionato nella convinzione che il senso della propria vita risieda nell’immediato e nel tangibile”. Si tratta – aggiunge – “dell’inganno dell’uomo di oggi e di sempre”.
È quindi per contrastare quest’inganno – secondo Mena – che “è sempre più urgente, importante, doveroso, che noi genitori di bambini cosiddetti ‘disabili’ facciamo conoscere questo mondo sotterraneo e che in quanto tale spaventa”. Un mondo – spiega Mena riflettendo sulla sua esperienza – “dove il tempo assume un altro aspetto che non è quello del ‘mordi e fuggi’, della fretta, dei risultati immediati, che caratterizza la società”.
Un mondo in cui è ancora di casa il lasciarsi incantare dalla bellezza semplice di un sorriso. Mena descrive suo figlio Gabriele come “un ragazzo solare, allegro, burlone, intelligente, acuto, ottimo osservatore, sensibilissimo e con un bellissimo sorriso che riscalda il cuore; soprattutto con una capacità di amare senza misura”. Afferma con franchezza, Mena, che “ciò che Gabriele riesce a regalarti non è percepibile da uno sguardo distratto e frettoloso”. Per questo, “nel privilegio di essere sua madre ho scoperto un grande tesoro”.
La sua testimonianza esula da ipocrisie. “Certamente, come ogni figlio ha difficoltà, tante difficoltà – ammette -. Per lui lo studio è più faticoso rispetto ai suoi compagni, ha tempi diversi nelle varie attività di tutti i giorni”. Ma, “ogni traguardo raggiunto è più prezioso di qualsiasi medaglia vinta alle Olimpiadi”. Essere madre di un bambino Down ha concesso a Mena di sperimentare la “vera sapienza”, che “non è quella che ti fa prendere il massimo dei voti a scuola o avere ‘successo’ nella vita, ma è quella del cuore che ti dice che ogni uomo è figlio di Dio: unico, irripetibile, prezioso, importante, con una vita degna di essere vissuta sempre e comunque, con tutte le sue difficoltà, limiti, pregi e difetti”.
Avere in casa un bambino Down è stata anche l’occasione per tutta la famiglia di scoprire persone straordinarie, che altrimenti sarebbero rimaste ignote. Persone come quelle che lavorano nella Asl di Nuoro, dove Gabriele ha fatto per anni logopedia, psicomotricità e colloqui formativi con una neuropsichiatra. Come gli addetti dell’Ospedale San Raffaele, a Roma, dove “per diversi anni ci siamo recati per un check-up di controllo” e dove Mena e suo marito hanno avuto incontri con altri genitori; occasioni di scambio e di confronto. “Altra esperienza di crescita – aggiunge ancora Mena – sono state le settimane estive per famiglie con figli con sindrome di Down organizzate con abnegazione ogni anno dal prof. Salvatore Lagati”.
Ma essere madre di un bimbo Down ha offerto a Mena anche dell’altro, la capacità di fugare ogni risentimento nei confronti di chi, vittima di un “inganno”, snocciola offese battendo i tasti di un pc. A Richard Dawkins – dice – “non posso che augurargli che un Signore che non conosce, ma dal quale è conosciuto molto bene, possa bussare alla porta del suo cuore (come tanti anni fa ha fatto con me) e che lui voglia aprirlo. Il resto è inimmaginabile, anche per uno scienziato… È tutto da scoprire, un mondo che aspetta di essere trovato e che fa sì che la vita diventi degna di essere vissuta, amata e rispettata”. E c’è anche un ultimo augurio che Mena sente di rivolgere a Dawkins: “Che nasca in lui il desiderio di avere un privilegio: vivere un periodo insieme ad uno dei tanti Gabriele sparsi nel mondo”.