Il giornalista decapitato dall'Isis scriveva: "La preghiera porta alla libertà"

In una lettera per una rivista universitaria, James Foley descriveva l’importanza avuta dalla recita del Rosario durante la sua detenzione in Libia, nel 2011

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James Foley, il reporter americano decapitato da un aguzzino dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante, “era profondamente cattolico, recitava il Rosario tutti i giorni e voleva lasciare il giornalismo al termine del suo reportage per dedicare il suo tempo al dialogo interreligioso”. Lo ha dichiarato, in un’intervista per Tgcom24, il card. Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione che è stato in Iraq alcune settimane fa con una delegazione di vescovi francesi per incontrare i cristiani sfollati.

Le parole del presule sono confermate dal testo di una lettera che Foley scrisse nel 2011 per una rivista dell’università cattolica Marquette di Milwaukee, dove aveva studiato prima di diventare giornalista. Decise di impugnare carta e penna e di rivolgersi agli studenti a seguito dell’esperienza di detenzione che subì a Tripoli, in quello stesso anno.

Nella lettera Foley confida che la preoccupazione sua e dei suoi compagni di detenzione era legata principalmente al timore che le loro madri “potessero essere in panico”. Di qui il ricorso alla preghiera. Il giornalista racconta di quando iniziò a recitare il Rosario perché “era come mia madre e mia nonna avrebbero pregato”. Confida inoltre che si sentiva “rinfrancato” nel “confessare la mia debolezza e la mia speranza insieme e conversando con Dio, piuttosto che stare solo in silenzio”.

Dopo diversi giorni, accadde un fatto insperato. Uno tra i carcerieri di Foley, probabilmente una personalità influente, gli diede la possibilità di effettuare una telefonata a casa. Così – scrive il giornalista – “dissi una preghiera e composi il numero”. Parlando brevemente con la madre, Folley ebbe modo di rassicurarla sul suo stato di salute. La donna gli rispose quindi che “i suoi amici stavano pregando per lui”.

“Ho ripetuto la chiamata nella mia testa centinaia di volte – scrive ancora il reporter -, la voce di mia madre, i nomi dei miei amici, la sua coscienza della situazione, la sua assoluta certezza nel potere della preghiera. Mi disse che i miei amici si erano riuniti per fare tutto quello che potevano per aiutare. Sapevo di non essere solo”.

Infine, il giornalista racconta che nell’ultima notte di detenzione aveva avuto modo di connettersi ad Internet e di ascoltare un discorso di suo fratello fatto per lui all’interno di una chiesa. Lo definisce “il miglior discorso che un fratello potrebbe fare per un altro”. E commenta: “Era solo un assaggio degli sforzi e delle preghiere di tante persone. Se non altro, la preghiera è stato un collante che ha permesso la mia libertà, una libertà interiore prima e dopo il miracolo di essere rilasciato”.

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ZENIT Staff

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