Tra le “nuove sfide” che la Chiesa governata da papa Francesco si trova ad affrontare, c’è anche quella spinosa delle relazioni con la Cina. Il tema non è nuovo, ma è tornato ad essere di stringente attualità negli ultimi giorni, a seguito dei vari riferimenti al Paese asiatico che il Santo Padre ha fatto nei suoi discorsi durante il viaggio in Corea. L’intenzione del Pontefice è chiara: dare una svolta all’edificazione di quel ponte di dialogo gettato dai suoi predecessori verso l’estremo Oriente. Per capire però se questo ponte potrà davvero svolgere una funzione di collegamento diplomatico tra due mondi così distanti, c’è bisogno che anche sull’altro versante, cioè a Pechino, vi sia disponibilità ad aprirsi al dialogo. Chi può rispondere con cognizione a questo quesito è Francesco Sisci, che in Cina vive ormai da decenni. Primo straniero ammesso alla Scuola Superiore dell’Accademia cinese delle Scienze sociali nel 1988, è oggi consulente senior per il Ministero dell’Ambiente italiano in Cina e coordinatore del programma di scambio tra la Scuola centrale del partito e l’Italia. ZENIT lo ha intervistato.
***
Dott. Sisci, come interpreta le recenti “aperture” del Papa verso la Cina? Come hanno reagito i cinesi alle sue rassicurazioni circa il fatto che i cristiani “non vengono come conquistatori”?
Si tratta di fatti senza precedenti. Anzitutto, per la prima volta a un Papa è stato permesso di sorvolare la Cina. Notizia ripresa dai giornali cinesi e dalla televisione centrale, la quale ha anche riportato aggiornamenti sul viaggio in Corea. Poi, a molti cinesi è stato permesso di andare in Corea per assistere agli eventi in presenza del Papa. A ciò va aggiunta la risposta alle “aperture” di Francesco da parte del ministero degli Esteri cinese; risposta che ritengo positiva perché è uscita dal modello molto “imbalsamato” di rispondere da parte delle autorità. Si tratta di piccoli elementi che attestano una grande novità: l’interesse della Cina a un colloquio con il Vaticano. Interesse accresciuto dalle dichiarazioni del Papa secondo cui i cristiani chiedono libertà spirituale ma la Chiesa non vuole interferire nella politica cinese e dalle frasi di ammirazione nei confronti del popolo cinese.
Ha fatto riferimento alla presenza di alcuni cinesi alla Giornata della Gioventù Asiatica in Corea. Nei giorni scorsi l’Agenzia AsiaNews ha riferito che circa 300 giovani cattolici cinesi avrebbero raggiunto Seoul eludendo però un blocco da parte delle autorità cinesi…
Che io sappia, non c’è stato alcun blocco sistematico affinché i cinesi non raggiungessero Seoul, tanto è vero che sono diversi i gruppi di cinesi che sono riusciti a partecipare agli eventi del Papa. Certo, non tutti coloro che sarebbero voluti andare sono riusciti a farlo. Ma non scopriamo l’acqua calda…
In che senso?
Nel senso che non è una novità che la Cina non abbia relazioni con il Vaticano e che sia diffidente verso i cattolici in generale. Se vogliamo soffermarci sugli elementi di continuità politica con il passato, ebbene ce ne sono a bizzeffe. Se la Cina fosse la patria della Chiesa cattolica, non staremmo qui a parlarne. Piuttosto, mi soffermerei invece sugli elementi di novità. Per esempio, appunto, il fatto che ci siano stati dei giovani che hanno partecipato alla Giornata asiatica della Gioventù. Talvolta però ho l’impressione che ci sia la volontà di non far cambiare le cose…
Da parte di chi?
È una cosa reciproca. Ed è anche comprensibile, perché siamo di fronte a due apparati fortemente gerarchizzati che hanno avuto a che fare l’uno con l’altro per decenni sempre nello stesso modo. Oggi siamo però di fronte a grande elemento di novità, perché chi è a capo della gerarchia vaticana, ossia il Papa, sta offrendo delle “aperture”. E da Pechino il presidente Xi Jinping gli sta tendendo la mano. Naturalmente si tratta di un processo molto complicato. Il Papa lo ha posto in termini molto semplici, di preghiera, vorrei dire “francescani”. Però la verità è che si tratta dell’incontro tra due mondi. Non va dimenticato che la Chiesa cattolica è stata considerata per secoli l’acerrimo nemico della Cina, una situazione che trae origini da ben prima che arrivasse il Partito comunista. Certo, l’avvento del comunismo non ha aiutato le relazioni, ma credo sia errato attribuire solo al comunismo le colpe di questa situazione. Ricordiamo che la Chiesa è ritornata in Cina, a metà dell’Ottocento, sulla punta delle baionette francesi.
In una sua analisi del 2009 aveva evocato lo scisma anglicano di Enrico VIII per descrivere quanto stava avvenendo in Cina con la nomina dei vescovi da parte del governo di Pechino e la nascita di una Chiesa compiacente con il governo, ossia l’Associazione patriottica. Come valuta oggi l’eventualità di uno scisma?
Alla luce delle recenti “aperture” del Papa e delle reazioni positive suscitate in Xi Jinping, direi assolutamente di no. Ci tengo però a precisare una cosa, ossia che lo scisma è come un divorzio: si fa in due. Quando avevo evocato l’eventualità di uno scisma lo avevo fatto non solo perché il Partito comunista cinese aveva operato determinate scelte, ma anche perché alcuni gruppi nella Curia davano corda a un’eventuale frattura.
Non crede però che la linea di papa Francesco rispetto alla Cina sia in continuità con quella dei suoi predecessori? Penso per esempio alla lettera al popolo cinese che inviò nel 2007 Benedetto XVI…
La lettera al popolo cinese è considerata a Pechino l’asse cartesiano su cui misurare il rapporto con il Papa. Paradossalmente, dopo alcune resistenze iniziali, parte della Chiesa “ufficiale” (l’Associazione patriottica, ndr) ha accolto con favore i contenuti di questa missiva. Chi invece ha avuto riserve è la Chiesa “sotterranea”, che ha allestito tutto un processo di revisione teorica. Comunque i cinesi, considerando quella lettera una pietra miliare dei rapporti tra Cina e Vaticano, valutano una grande continuità di spirito tra Benedetto XVI e Francesco nella politica con la Cina. E mi permetta di rilevare un dettaglio…
Prego.
All’epoca in cui fu scritta la lettera, nel 2007, era sotto-segretario della Sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato vaticana il card. Pietro Parolin, colui che oggi è il segretario di Stato. Coincidenza non casuale…
Prima parlavamo di Chiesa “ufficiale” e Chiesa “sotterranea”. Come guardano i cinesi a queste “due Chiese”?
La Chiesa è anzitutto una, come ha specificato anche lo stesso Papa. E poi, il termine Chiesa “sotterranea” è fuorviante, perché evoca qualcosa che ha a che fare con le catacombe, con la necessità di doversi nascondere da chissà cosa. Nulla di tutto questo. La differenza sta nel fatto che i preti aderenti alla Chiesa “sotterranea” sono più distanti dal governo, ma ciò non gli impedisce di proseguire le loro attività. Semplicemente, non prendono lo stipendio dallo Stato. Una loro scelta, legittima. Tutto qui…
C’è però la questione delle croci rimosse nella regione dello Zhejiang. Mons. Vincenzo Zhu Weifang, vescovo di Wenzhou, ha affermato che il governo, al di là delle motivazioni legali sulle altezze delle croci, “prende di mira le croci sui tetti delle chiese [come] un segno della fede cristiana”. Non è allora solo una questione di stipendi rifiutati, il clima che si respira in Cina è tutt’altro che favorevole ai cristiani…
Al vescovo di Wenzhou nessuno ha tappato la bocca, lui fa bene a protestare, però si esagera se mediaticamente si dà troppo spazio alla questione delle croci rimosse. Al di là di questo problema – confinato per altro nella sola regione dello Zhejiang e che riguarda quasi esclusivamente chiese protestanti
che sorgono come grattacieli piuttosto che come campanili – il punto è capire se ci sono ostacoli nuovi nei confronti delle attività dei cattolici in Cina. A mio avviso, la risposta è no. Le difficoltà che si riscontrano oggi sono quelle di sempre, non ci sono ulteriori incrinature nei rapporti. Il fatto di insistere su una questione certamente negativa ma senza grosse implicazioni è privo di una delle virtù cardinali, la speranza. Voglio dire, il Papa sta facendo delle “aperture”, la Cina sembra seguirlo su questa strada, e noi che facciamo? Ci arrovelliamo sull’altezza delle croci sulle chiese?