La nostra vita è chiamata ad essere cibo per gli affamati

Commento al Vangelo della XVIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

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La notizia della morte di Giovanni era giunta a Gesù come una profezia per la sua vita. Lo aspettava un viaggio difficile, il passaggio dalla morte alla vita. E Lui, docilmente, accetta la volontà del Padre con un segno: “parte su una barca e si ritira in disparte in un luogo deserto”, indicando così come avrebbe compiuto la sua missione a Gerusalemme, dove lo avrebbero messo “in disparte” sulla Croce e sarebbe sceso nel “deserto” del sepolcro.

La “morte di Giovanni”, come quella di ogni martire, è seme di nuovi cristiani. E’ la testimonianza che sigilla con l’autenticità l’annuncio de Vangelo. Così, intrecciate tra loro, le vite di Gesù e Giovanni, del Capo e della sua Chiesa, divengono un annuncio, un kerygma che risuona ovunque.

E infatti, “le folle” hanno “saputo” dove era andato Gesù con la “barca” (la Chiesa), e lo hanno “seguito” camminando “a piedi” dalle loro “città”. E’ l’immagine del catecumenato della Chiesa antica. Dai segni compiuti nei cristiani, i pagani intuivano che Gesù Cristo era veramente risorto; “sapevano” cioè che era passato all’altra riva, ed erano attirati da quella vita nuova e piena che vedevano realizzata nelle persone convertite che conoscevano.

Per questo lo “seguivano”, ovvero si facevano suoi discepoli sul cammino dell’iniziazione cristiana; diventare cristiani era una chiamata simile a quella fatta ad Abramo: dovevano “uscire” dalle loro “città” terrene, sentine di vizi, culti idolatrici, passioni e libidine per seguire Gesù “nel deserto”.

Solo in esso, come Israele, potevano scoprire che cosa vi era nel loro cuore, se l’ascolto della predicazione si sarebbe tradotto in obbedienza. Solo nella verità, infatti, è possibile la conversione autentica che conduce alla fede adulta dell’uomo nuovo che vive solo delle Parole che escono dalla bocca di Dio.

Il Vangelo di questa domenica punta a farci fare questo passaggio fondamentale, così come lo vivevano i catecumeni.

Il catecumenato, infatti, era come un esodo: dopo quella degli idoli, dei beni e del denaro, dovevano passare indenni con Cristo anche attraverso la tentazione del “pane”: non si diventava cristiani se non si era “passati” attraverso il deserto dove non c’è né pane né acqua.

Sì, non è cristiano chi cerca ancora le proprie sicurezze negli affetti, nel lavoro, nel prestigio, nella salute, nel denaro, nella politica, nella cultura, nel branco.

Non lo saremo se continuiamo a chiedere alla pietre che diventino pane. Per caso non siamo nella Chiesa con questa attitudine? Non cerchiamo in essa le identiche sicurezze che il mondo non ci ha saputo dare?

Seguiamo Gesù, ma, “sul far della sera”, quando giunge l’ora di “mangiare”, si desta l’uomo vecchio ancora vivo in noi. Nell'”ora tarda” che corrispondeva a quella del pasto principale, l’uomo della carne ci vorrebbe allontanare da Gesù, convincendoci che solo nei “villaggi” del mondo ci si possa sfamare

Il demonio spesso ci gioca proprio così: attira l’attenzione sul “luogo deserto” nel quale Gesù si è ritirato, insinuandoci che laddove Egli ci porta non vi è possibilità di vita, gioia e pace. Come accadde al Popolo di Israele nel deserto, crediamo alle sue menzogne che promettono pane e libertà. 

Ciò accade, ad esempio, quando scopriamo che il nostro matrimonio è in realtà un vero e proprio “eremo”, secondo l’originale greco, dove la “fame” di affetto e pienezza si fa sentire. Quando il rapporto si rivela difficile se non impossibile, e sperimentiamo che di esso non possiamo nutrirci. 

Ma non ci siamo sposati per restare soli, non ci fidanziamo nel desiderio di rinchiuderci in un eremo. Non fa per noi, no?  

Che fare allora? Non resta che scappare dall’eremo e “andare nei villaggi a comprare da mangiare”. Ma occorrono soldi, sforzi, compromessi. Occorre tornare al mondo e abbandonarsi ai suoi costumi e ai suoi valori, perché nei villaggi nessuno ti regala nulla.

Quanti di noi, pur avendo seguito il Signore, anche nel presbiterato e nella vita religiosa, al sopraggiungere della sera di delusioni e frustrazioni, si è lasciato sedurre dal demonio ed è tornato sui propri passi, sino all’Egitto dal quale l’amore di Dio lo aveva liberato? E che sofferenze…

Ma, nell’eremo dove ha attirato la nostra vita, il Signore ci annuncia questa domenica che “non occorre” che alcuno sia “congedato” per andare a cercare pane e salvezza!

Per questo Gesù “ordina alla folla” una cosa politicamente scorrettissima: “di sedersi sull’erba”. Ma come, niente marce della pace? Niente impegno nel sociale, niente lotta contro le ingiustizie? “Seduti”, proprio i cristiani? Sì, perché essi camminano sedendosi ai piedi Gesù, come Maria…

Le comunità cristiane vivono dell’Eucarestia, che non è impegno ma dono; per questo camminano riposando sui prati d’erba fresca, il pascolo preparato dal loro Buon Pastore. Era Pasqua infatti quel giorno di amore e moltiplicazione; era di primavera, l’unico tempo in cui la terra di Galilea si ammanta di prati…

Gesù ci aspetta, dunque, nel matrimonio, nel lavoro, nel deserto dove viviamo, per farci sperimentare quello che Lui ha vissuto nel Mistero Pasquale. Il Padre non lo ha lasciato nella “fame” di vita, lo ha risuscitato “saziandolo” di Vita eterna, così abbondante da “avanzare” ed essere “raccolta” nei “dodici canestri”, nella Chiesa.

“Dodici”, come le tribù di Israele, come gli apostoli e le comunità da loro fondate. In esse c’è la vita di Cristo risorto, il nutrimento che sazia la fame del mondo! Frutto di tanta abbondanza è anche la nostra comunità, il “canestro” intessuto con le nostre povere e deboli vite, ma colmato della vita che non muore.

E’ proprio la nostra debolezza che Gesù cerca per moltiplicare la vita! Allora, “che cosa abbiamo”, oggi, per sfamarci e “dare da mangiare” a chi è accanto a noi? “Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!”: ci siamo noi Signore, con i nostri peccati; ma abbiamo anche la tua Parola, i “cinque” rotoli della Torah; e poi ci sei Tu che ci parli; sei “qui” con noi, pescato vivo nel mare della morte come un “pesce”; sei accanto a noi e per noi nelle tue “due” nature, vero uomo e vero Dio, per fare di ciascuno un figlio libero di vivere secondo la nuova natura divina che sei venuto a donarci. 

Sì, Signore, non abbiamo altra sicurezza che Te, pesce come noi, sceso nel mare della morte come noi, ma risuscitato per trarci dai fondali bui della menzogna satanica e appoggiare la nostra vita nel tuo amore.

Per questo Gesù ci dice di “dare noi stessi da mangiare”: “non occorre” altro che “portare” a Lui quello che siamo, che in fondo significa convertirsi, e consegnare, attraverso le viscere di misericordia della Chiesa, i nostri peccati a Cristo.

Quei “cinque pani e due pesci”, infatti, sono l’immagine di ogni catecumeno che scendeva nelle acque del battesimo e vi risaliva rivestito di Cristo, ed era come “moltiplicato” nella nuova vita cristiana.

Come accade in ogni sacramento che rinnova il Mistero Pasquale di Cristo: nell’Ordine la fragilità e la piccolezza di un uomo sono trasformate in zelo e parresia che lo fanno suo ministro; nel matrimonio i limiti e le incompatibilità di un ragazzo e una ragazza sono sbriciolate per fare dei due una carne sola; nell’Olio degli infermi l’estrema debolezza di un malato diviene un’offerta coraggiosa di sé per la salvezza di tanti.

Sì, proprio ciò che il deserto ci ha illuminato, quello che siamo oggi è importante. Non si dice dei pani e dei pesci se fossero buoni o cattivi, belli o brutti, grandi o piccoli. Erano, semplicemente, pane e pesce. Erano Marco, Caterina, Mario, Francesca. Erano tu ed io. E sono diventati il cibo che ha sfamato una moltitudine.

La nostra vita, infatti, è chiamata ad essere ci
bo per gli affamati
. E non hanno fame tua moglie, tuo figlio, tua suocera? Hanno la stessa tua fame… Per questo, frutto della “compassione” del Signore, nella Chiesa rinasciamo come pani di compassione.

Dalla memoria delle tante “guarigioni” che il Signore ha compiuto nella nostra vita scaturisce lo zelo per sfamare la “folla” di poveri che ci è accanto. La vita che riceviamo nella Chiesa è così abbondante che ci “avanzerà. Non cercheremo più nell’altro l’alimento con cui saziarci; al contrario, divenuti apostoli di Cristo, come le “dodici ceste”, ci lasceremo “portare via” tempo e idee, criteri e progetti, le sicurezze ormai gettate all’anatema.

Così in ogni relazione ed evento della vita, quando calerà la “sera” della Croce, sapremo che è giunto il momento di abbandonarsi alla “benedizione” di Gesù, che trasforma in “bene” ogni male; Lui saprà “alzare con gli occhi” anche la nostra carne “verso il Cielo”, e le sue mani crocifisse ci “spezzeranno” come pane consegnato a ogni uomo.

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Antonello Iapicca

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