Il Tondo Doni di Michelangelo è uno dei dipinti più noti dedicati alla Sacra Famiglia. Fu eseguito intorno al 1507 per Angelo Doni, come racconta Giorgio Vasari, famoso biografo degli artisti e in modo speciale di Michelangelo : «Venne volontà ad Agnolo Doni, cittadino fiorentino amico suo, sí come quello che molto si dilettava aver cose belle, cosí d’antichi come di moderni artefici, d’avere alcuna cosa di mano di Michele Agnolo, perché gli cominciò un tondo di pittura ch’è dentrovi un Nostra Donna, la quale, inginocchiata con amendua le gambe, alza in su le braccia un putto e porgelo a Giuseppo che lo riceve. Dove Michele Agnelo fa conoscere, nello svoltare della testa della madre di Cristo e nel tenere gli occhi fissi nella somma bellezza del Figliuolo, la maravigliosa sua contentezza e lo affetto del farne parte a quel santissimo vecchio. Il quale con pari amore, tenerezza e reverenzia lo piglia, come benissimo si scorge nel volto suo, senza molto considerarlo. Né bastando questo a Michele Agnolo per mostrar maggiormente l’arte sua esser grandissima, fece nel campo di questa opera molti ignudi appoggiati, ritti et a sedere; e con tanta diligenzia e pulitezza lavorò questa opera, che certamente delle sue pitture in tavola, ancora che poche siano, è tenuta la più finita e la più bella che si trovi».[1] Il dipinto è una commissione privata, è destinato, cioè, alla devozione personale del committente, appunto Angelo Doni, che probabilmente lo commissionò a Michelangelo per la nascita della figlia Maria[2], l’8 settembre del 1507, quale dono per la moglie Maddalena Strozzi, sposata nel gennaio del 1504. In primo piano appare Maria che “inginocchiata con amendua le gambe” sorregge il Figlio e lo porge a Giuseppe, il quale, posto alle sue spalle, lo riceve e lo sorregge con entrambe le braccia. Molti elementi iconografici mostrano una profonda meditazione sui testi evangelici.
Innanzitutto Michelangelo ritrae Maria in un abbigliamento particolare. Non si tratta, infatti, di un abito sontuoso e riccamente ricamato, come nelle Madonne dipinte da Jan van Eyck e da Memling, neppure è un abito dimesso, più consono al tema della natività, come nei dipinti di Signorelli e di Bellini. Nel Tondo di Michelangelo, Maria non porta il velo e la tunica è stretta poco sotto il seno da un corsetto, in una foggia all’antica, le maniche della tunica rosa sono arrotolate e lasciano scoperte le braccia. Dipingendo questo abito, Michelangelo offre una riflessione sulla maternità di Maria, riferendosi direttamente alle sue parole: «Ecco la schiava del Signore: avvenga a me secondo la tua parola!»[3]. Nel dialogo con l’angelo, la Vergine non si definisce infatti ministra o cooperatrice di Dio, bensì, con grande segno di umiltà, usa il termine schiava[4]. Michelangelo ritrae, dunque, Maria nella postura e soprattutto nei panni di una schiava al servizio del suo Signore. Maria, “la piena di grazia” secondo le parole dell’angelo, è ritratta da Michelangelo come colei che aderisce al piano salvifico dell’Incarnazione con la docilità e l’obbedienza di una schiava, così che ci sembra di sentire ancora risuonare nelle nostre orecchie le parole dell’angelo: «lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio».[5]
San Bernardo di Chiaravalle, parlando del mistero dell’Incarnazione, usa il termine “casa” per descrivere Maria: «La Sapienza, dunque, che era di Dio, ed era Dio, venendo a noi dal seno del Padre, si è edificata una casa, cioè la sua stessa madre, la Vergine Maria»[6]. Nell’opera di Michelangelo, il volto di Maria è rivolto alla contemplazione del Figlio, che ella sostiene con le braccia, apparentemente innalzandolo. Ma questa impressione iniziale muta subito nella consapevolezza che Michelangelo rappresenta Maria non tanto mentre alza Gesù verso l’alto, quanto piuttosto mentre lo riceve dall’alto, e a questo ufficio partecipa anche Giuseppe. Michelangelo lentamente ci conduce verso la dimensione domestica della Sacra Famiglia, facendo riflettendo sul ruolo centrale di Maria, per poi dedicarsi alla descrizione del ruolo di Giuseppe. Egli è ritratto alle spalle del gruppo, e così non solo svolge il compito di trattenere Gesù Bambino con maggior forza, tenendolo con le mani sotto le ascelle con una presa salda, ma soprattutto è parte integrante della famiglia che accoglie il Figlio di Dio. Giuseppe non è dunque ritratto fuori dai vincoli familiari, ma è inscritto in essi, in quanto a Gesù viene effettivamente preparata una vera famiglia. Riguardo a Giuseppe, sant’Agostino scrive: «ben a ragione fu scelto come testimone della verginità della sposa»[7]e poi ancora sul ruolo paterno «le generazioni di Gesù […] vengono contate per il tramite di Giuseppe e non di Maria […] la Scrittura […] con l’autorità dell’angelo afferma che Giuseppe era lo sposo di Maria. “Non temere -disse- di prendere con te Maria, la tua sposa, poiché quel ch’è nato da lei è opera dello Spirito Santo”. L’angelo gli dà anche l’ordine d’imporre il nome al bambino benché non fosse nato da lui per discendenza carnale […] con tutto ciò non gli vien tolta l’autorità di padre, dal momento che gli viene comandato d’imporre il nome al bambino. Infine la stessa vergine Maria, sebbene fosse perfettamente consapevole d’aver concepito il Cristo senza aver avuto alcun rapporto o amplesso coniugale con lo sposo, lo chiama tuttavia padre di Cristo».[8] Sant’Agostino inscrive, dunque, il tema della paternità di Giuseppe all’interno del piano divino dell’Incarnazione: Giuseppe è il padre davidico di Cristo, colui che fra tutti i santi ebbe l’onore di allevare, nutrire, guidare e abbracciare il Messia. Nelle riflessioni di Sant’Agostino il ruolo fondamentale affidatogli dalla Divina Provvidenza è quello di testimone della verginità di Maria e di custode della Santa Famiglia.
Michelangelo, conscio di tutto ciò, rappresenta Giuseppe in una postura che evidenzia il carattere della missione che gli venne affidata in sogno dall’angelo: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere […] Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».[9] Giuseppe sostiene con forza il piccolo Gesù assieme alla sposa Maria
Nell’opera di Michelangelo vi sono altri elementi iconografici, dipinti proprio per offrire una riflessione profonda sul mistero dell’Incarnazione, ma anche sulla novità di quella famiglia, che è modello del genere umano redento proprio dall’Incarnazione, Morte e Resurrezione di Nostro Signore. Infatti, alle spalle della Santa Famiglia, Michelangelo dipinge una fascia grigia, come un muretto oltre il quale pone sulla destra san Giovanni Battista giovinetto e alle sue spalle alcuni ignudi che dialogano fra loro, indifferenti a quanto accade in primo piano sotto i nostri occhi. A rendere testimonianza della luce, pur non essendo egli la luce, era stato mandato Giovanni[10], che nel Tondo è appunto dipinto al ridosso di quella striscia che separa gli ignudi dalla Santa Famiglia, in una zona d’ombra che richiama le tenebre dell’incomprensione e del rifiuto del mistero dell’Incarnazione, secondo le parole del Prologo del Vangelo di Giovanni: «veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe».[11] Sant’Agostino, nelle omelie proprio sul Vangelo di Giovanni, sottolinea che il Battista era: «il precursore, l’amico dello sposo, che lo riconobbe per illuminazione dello Spirito Santo e lo predicò prima che egli si presentasse, e, una volta presentatosi, lo additò perché fosse riconosciuto anche dagli altri».[12] Nel Tondo, Michelangelo lo dipinge presso il muro che divide il di
pinto in due emicerchi, cesura netta che immediatamente ci propone due tempi diversi, di cui è spartiacque Gesù bambino che, posto con Maria e Giuseppe su un prato pieno di nuovi germogli, dà origine alla nuova era della Grazia. Michelangelo, dipingendo quel muretto, cita implicitamente una omelia in cui sant’Agostino, riprendendo a sua volta la figura del muro da san Paolo[13], ricorda come tutti fin dalla nascita siamo prigionieri del peccato originale ereditato da Adamo, e invita a riconciliarci con Dio tramite l’eliminazione di questa barriera che ci separa da Lui: «c’è di mezzo un ostacolo che divide, ma c’è altresì il Mediatore che riconcilia. Ciò che divide è il peccato, il Mediatore che ci riconcilia è il Signore Gesù Cristo(…)Per abbattere il muro che divide, il peccato, è venuto quel Mediatore che si è fatto ad un tempo vittima e sacerdote»[14]. Se il Battista aveva battezzato con acqua, colui per il quale era stato mandato a preparare la strada battezzerà in Spirito Santo lavando proprio quel peccato[15]. Per questo motivo, Michelangelo pone Giovanni al di là del muro, in quanto egli è l’ultimo dei profeti, il più grande tra i nati di donna prima dell’avvento del Redentore, mentre la Santa Famiglia è posta al di qua, nell’atto di esaltare Gesù, che con la sua nascita apre un’epoca nuova e finale, in cui il più piccolo fra gli uomini sarà più fortunato del Battista[16]. Dunque, mentre è chiaro il significato di quel muro, è altrettanto chiara l’identità delle figure poste sullo sfondo del dipinto, che con la loro nudità rappresentano l’umanità immersa ancora nel peccato originale, prima della venuta di Cristo[17].
Uno degli elementi più notevoli dell’opera, da ogni punto di vista, è costituito dall’intreccio delle braccia di Maria e Giuseppe: un intreccio di braccia che generano quell’abbraccio che è il luogo stesso nel quale Gesù nasce, ovvero la famiglia.
Rodolfo Papa, Esperto della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, docente di Storia delle teorie estetiche, Pontificia Università Urbaniana, Artista, Storico dell’arte, Accademico Ordinario Pontificio.
Website www.rodolfopapa.it Blog: http://rodolfopapa.blogspot.com e.mail: rodolfo_papa@infinito.it.
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NOTE
[1] G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri. Firenze 1550, a cura di Luciano Bellosi e Aldo Rossi, Torino 1991, p.884.
[2] Cfr. A. Natali, La Bibbia in bottega. Le scritture, l’antico e l’occasione, Firenze 1991, pp. 75-101.
[3] Lc 1,38.
[4] Nel testo in latino della Vulgata il termine è ancilla, nel testo greco doúle.
[5] Lc 1,35.
[6] Bernardo di Chiaravalle, Sermoni diversi, Roma 1997, sermone LII, 2; p. 299.
[7] Agostino, Discorsi sul Nuovo Testamento, parte III, volume XXX/1, a cura di L. Carrozzi, Roma 1983: Discorso 51, p. 17.
[8] Ibid.: Discorso 51, p. 27.
[9] Mt 1,20-21.
[10] Gv 1,8.
[11] Gv 1,9-10.
[12] Agostino, Commento al Vangelo e alla prima epistola di san Giovanni, trad. it. E. Gandolfo, Roma 1968: Omelia 109, 2, p. 143.
[13] Ef 2,14.
[14] Agostino, op. cit. : omelia 41, 5, pp. 827-829.
[15] Gv 1, 26 e 33.
[16] Lc 7, 28.
[17] Cfr. C. De Tolnay, Michelangelo I. Youth, Princeton 1943, pp. 109-167. N. Himmelmann, Nudità ideale, in Memoria dell’antico nell’arte italiana. II. I generi e i temi ritrovati, Torino 1985, pp. 208-210.