Nella sua parabola esistenziale e culturale Lev Tolstoj vive un doppio dramma: da un lato la crisi della coscienza moderna, di matrice eminentemente illuminista e razionalista, in mezzo alla quale egli stesso si era formato; dall’altro la crisi della chiesa, ridotta a sistema di potere e di regole, che porrà il grande scrittore russo di fronte ad un bivio.
Tolstoj si ritroverà dunque isolato dall’uno e dall’altro contesto, intellettuale sradicato ed “eretico”, al quale un beffardo destino impedirà persino la riconciliazione finale.
Tutta l’opera di Tolstoj è quindi un grido, al quale fanno eco tante risposte disperse nel mare magnum della cultura a lui contemporanea e nel secolo successivo.
Aristocratico di nascita, Tolstoj finirà per perdere tutti i privilegi del suo status sociale, finendo in modo pressoché inevitabile alle “periferie dell’esistenza”: nato conte, sceglie di diventare contadino e “plebeo”, per poi morire barbone, in fuga da tutto e tutti ma fino all’ultimo accompagnato dalla sua bruciante domanda di umano.
È per questo che il Meeting di Rimini, fedelmente al tema dell’edizione di quest’anno, Verso le periferie dell’esistenza. Il destino non ha lasciato solo l’uomo, ha deciso di dedicare allo scrittore russo la mostra Tolstoj. Il grido e la risposta, a cura di Giovanna Parravicini, Adriano e Marta Dell’Asta, Francesco Braschi, Olga Sedakova, Fekla Tolstaja e gli studenti della Scuola di Alta Economia di Mosca.
A colloquio con ZENIT, Giovanna Parravicini, ricercatrice della Fondazione Russia Cristiana, ha anticipato alcuni particolari della mostra, alla luce della personalità assolutamente unica di Lev Tolstoj.
Dottoressa Parravicini, come sarà strutturata la mostra su Tolstoj?
L’idea di fondo di questa mostra è un’idea dialogica, tanto è vero che il suo titolo è Tolstoj: il grido e le risposte. Non è possibile prendere in esame tutta l’opera di Tolstoj ma cercheremo soprattutto di concentrarci sui rapporti che lo scrittore ebbe con la società del suo tempo e sulle domande che egli pose, le quali ci sono sembrate di grande attualità.
L’idea del dialogo sarà espressa in mostra dalla presenza di interlocutori, evidenziati dall’allestimento attraverso dei “totem”, ciascuno dei quali porta un personaggio e una frase emblematica: tra tali personaggi vi sono Dostoevskij, Solov’ev, la sorella dello stesso Tolstoj, che, per certi versi, ispirò il personaggio di Anna Karenina. Dal colloquio tra questi personaggi e Tolstoj emergono risposte diverse, linee ideologiche di chiusura ma anche punti di fuga verso aperture, e questo drammatico dialogo segna bene il limite ma anche la grandezza dello scrittore: il non accettare mai fino in fondo una risposta ma, dall’altro lato, il riaprire continuamente le domande senza acquietarsi mai nelle proprie teorie e tanto meno nello scetticismo.
Contemporaneamente vengono rappresentate le principali vicende della vita dello scrittore: i problemi che affronta, la gente che incontra, le vicende storiche, la “scomunica” della Chiesa ortodossa russa (in realtà, la Chiesa non pronunciò questa parola, asserendo che lo stesso Tolstoj si era allontanato da essa con le sue teorie, e invitandolo al pentimento), fino alla drammatica fuga da casa e alla morte lungo la strada. Al termine del suo itinerario esistenziale i visitatori passeranno attraverso un tunnel – metafora del passaggio dalla morte alla vita come lo scrittore lo descrive nel raccono La morte di Ivan Il’ič – ed entreranno nell’ultimo ambiente, in cui vi saranno audio e video con la persona, la voce e il messaggio di Tolstoj, la sua sconvolgente percezione del mistero dell’uomo; come dice di uno dei suoi personaggi, sempre largamente autobiografici: “…Non credeva in Dio, non ci credeva perché non solo non sarebbe riuscito a esprimere il concetto di Dio con le parole, ma neppure a esprimerlo con il suo pensiero… Eppure – egli lo sapeva bene – era qualcosa di più reale di tutto quello che sapeva”.
In che misura Tolstoj è un testimone della crisi della modernità?
Tolstoj è, innanzitutto, un figlio della cultura illuminista e moderna. I suoi ispiratori sono Rousseau e Kant. È quindi un uomo che nasce in una cultura di matrice razionalista ma che, al tempo stesso, intuisce la crisi e il fallimento del razionalismo. Afferma di essersi posto il problema del progresso e di essersi reso conto che non esiste progresso, né razionalismo in grado di abbracciare tutto l’uomo e tutto il mistero della realtà. Leggendo la Confessione, vengono in mente dei passi di Pavese, quando al culmine della fortuna di scrittore si chiede che senso e che gusto abbia tutto ciò che il “mondo” può offrire all’uomo. Anche Tolstoj, marito e padre felice, negli anni di massimo successo letterario, giunge a meditare il suicidio perché tormentato dall’assenza di un significato ultimo. Da qui il suo ritorno alla fede. In questo senso è molto interessante che Tolstoj, che pure è un rappresentante dell’aristocrazia, non porta a termine i suoi studi, si ritira nella sua tenuta di Jasnaja Poljana, dove si dedica al lavoro dei campi, occupandosi in particolare, della cultura dei contadini, dei quali cerca di migliorare la condizione, fondando tra l’altro una settantina di scuole in tutta la Russia, destinate alle classi rurali.
Pur essendo un aristocratico, Tolstoj si rende conto che è proprio il popolo ad essere titolare di una verità superiore, radicata nell’esperienza di vita: mentre i cristiani appartenenti alla nobiltà, all’intelligencija, alla civiltà moderna che trova il proprio simbolo nell’urbanizzazione, e addirittura il clero, di fatto vivono un profondo dualismo, un’ipocrisia che cela l’incapacità di trovare le risposte alle domande ultime della vita, lo scrittore vede nella popolazione rurale una profonda unità tra fede ed esperienza che porta queste persone a saper affrontare serenamente, lucidamente, la vita e la morte.
[La seconda parte sarà pubblicata domani, martedì 22 luglio]