Il Dio della grazia, il Dio della parola, il Dio creatore. Le straordinarie immagini utilizzate dal cardinale Ravasi nelle sue catechesi prima degli Esercizi spirituali tracciano un percorso immaginifico che, scandito dalla poesia dei Salmi, parte dalle “sacre sorgenti del Giordano” per arrivare fino agli “altissimi e impressionanti spazi siderali”, orizzonti epifanici in cui Dio si mostra all’uomo.
Le riflessioni del Presidente del Dicastero per la Cultura predicati davanti al Papa e alla Curia Romana sono un invito alla riscoperta del Volto di Dio a partire proprio dalle pagine del Salterio. In particolare, nella seconda meditazione pronunciata lunedì mattina, il porporato ha utilizzato il Salmo 119 e il 23 per descrivere il vibrante amore presente nella Parola di Dio, definita prima grande teofania “che brilla nel buio dell’esistenza”.
È la Parola, infatti, il “primo volto con cui Dio si presenta” ha detto il cardinale. “La grazia di Dio si affida alla Parola” ed è significativo notare “che proprio l’incipit assoluto dell’Antico e del Nuovo Testamento è scandito dalla Parola”.
“In principio era il Verbo…”, “Dio disse…”, tutte espressioni che identificano questa Parola rivelatrice e al contempo creatrice. Perché la stessa creazione “è un evento sonoro”, ha affermato il cardinale, “è una Parola, la realtà paradossalmente più umana, quella estremamente fragile – perché una volta detta si spegne – ma al tempo stesso ha un’efficacia particolare, perché senza la Parola non esisterebbe la comunicazione”.
Riecheggiano quindi i versi del salmo 119: “Lampada per i miei piedi è la tua parola”. La parola è “guida all’interno della nebbia”, è luce che apre uno spiraglio nell’orizzonte “grigio”, “fluido”, “incerto” della cultura moderna, dove, secondo il porporato, “si celebra l’amoralità” e regna l’assoluta indifferenza tanto che “non c’è più distinzione tra dolce e amaro, tra giorno e notte”.
Ma la Parola è anche criterio che indica “la vera scala dei valori”, troppo spesso “calibrata sulle cose, sul denaro, sul potere”. Ed è pure “professione d’amore” che porta ad “un livello superiore” di comunicazione: la preghiera, dialogo intimo con il Padre Eterno.
“Sorgente di luce, di guida, di dolcezza, sorgente di amore, di illuminazione etica”, il Logos è tutto questo, ma soprattutto, per il porporato, è “principio di fiducia”. Una fiducia che nei canti liturgici è esemplificata nei versi del Salmo 23, il cosiddetto “canto del pastore”.
In questo Salmo, ha spiegato il Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, Dio si rivela infatti come “pastore che guida il gregge e che è, allo stesso tempo, compagno di viaggio”, rimarcando così “il valore della grazia: verità da un lato e amore dall’altro”.
C’è, in questi versi, “la condivisione della strada” ha sottolineato il cardinale. Una strada che non è quella “del mondo vagante senza una meta”, ma indica un arrivo: la mensa imbandita nel Tempio per il sacrificio di comunione, simbolo della liturgia che è anch’essa Epifania di Dio.
Per questo il 23 “è il salmo della fiducia”, ha concluso Ravasi, perché esso dimostra che “non siamo soli nel cammino della vita”, e che “la meta da raggiungere per la preghiera, per la fede è la celebrazione della liturgia, quando insieme mangeremo alla stessa mensa”.
Se la prima Epifania del Signore è la Parola, la seconda è il creato: “una diversa parola di Dio” che “contiene una musica teologica silenziosa” come affermava il commentatore del Salterio, Gunkel. Approfondendo tale tema nella terza meditazione, svolta sempre lunedì mattina, il cardinale Ravasi ha parlato quindi di spazi astrali come “testimoni entusiasti dell’opera creatrice di Dio”, e di uomini incapaci di contemplare la creazione a loro affidata, tanto da “umiliarla”, “devastarla” e “usarla soltanto strumentalmente”.
“L’assenza dello stupore nell’uomo contemporaneo è segno di superficialità” ha denunciato il porporato. Egli – ha aggiunto – “è chino solo sull’opera delle sue mani, è incapace di alzare gli occhi verso il cielo, di ammirare in profondità i due estremi dell’universo e del microcosmo. Non ha più il senso della terra come sorella”.
È necessario perciò “ritrovare i poiemata, le armonie di Dio nella creazione”, creare “una spiritualità che, paradossalmente, abbia una sua carnalità”. Altrimenti, come presagiva Chesterton: “Il mondo non perirà per mancanza di meraviglie ma per mancanza di meraviglia”.
Il presidente del Dicastero per la Cultura si è poi soffermato sul tema tanto caro al teologo Benedetto XVI e ancor prima a Giovanni Paolo II: il rapporto tra fede e scienza. “Due magisteri non sovrapponibili”, ha detto il cardinale ricordando le parole dello scienziato americano Gould, “distinti ma non totalmente separati”.
“La fede si interessa del fondamento, la scienza della scena”. Una risponde ai “perché”, l’altra ai “come”. Pertanto “hanno bisogno l’una dell’altra per completarsi nella mente dell’uomo che pensa seriamente”. “Ciò – ha detto Ravasi – ci porta alla fide set ratio, due ali per viaggiare nel mondo del mistero ma anche della realtà stessa” di cui Ratzinger è stato rigoroso testimone.
Ci sono però alcuni eccessi da evitare, come indica Pascal: “escludere la ragione, non ammettere che la ragione”. Ma allo stesso tempo c’è una via, che lo stesso filosofo illustra: “Le cose umane bisogna capirle per poterle amare; le cose divine bisogna amarle per poterle capire”. Ha aggiunto il porporato: “Devi gettarti prima nel mare della fede e poi cominciare a navigare”.
Emblema di queste due vie che procedono “in contrappunto e non in opposizione”, è il duplice sole del Salmo 19. “Il sole fiammeggia nel cielo e ci parla della rivelazione cosmica – ha concluso il cardinale della Cultura -. Ma c’è poi la Parola di Dio che è l’altro sole, che ci illumina in pienezza. Ecco, parola rivelatrice e parola creatrice”.