Riprendiamo l’editoriale pubblicato oggi sul quotidiano Il Sole 24 Ore, in cui monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, riflette sulla notizia della rinuncia al soglio petrino da parte di Benedetto XVI.
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È con profonda emozione che ho appreso la notizia della rinuncia di Papa Benedetto XVI al suo servizio di Vescovo di Roma. Avevo avuto la gioia di parlargli giovedì scorso, al termine dell’udienza concessa ai membri del Pontificio Consiglio della Cultura, riuniti in seduta plenaria. Come sempre era stato squisito, lucidissimo nella memoria e luminoso nell’intelligenza, nel pur breve scambio di parole che avevo avuto con lui. Eppure, non mi aveva sorpreso ascoltare il commento preoccupato di qualcuno dei presenti, Cardinali e Vescovi di varie parti del mondo, colpito dall’impressione di fragilità fisica che il Papa ci aveva dato. Sta proprio in questa paradossale combinazione la chiave di lettura della rinuncia annunciata: da una parte, la coscienza limpida dei propri doveri, delle responsabilità e delle sfide poderose che la Chiesa deve affrontare in questo mondo in così rapida trasformazione; dall’altra, la percezione di una debolezza di forze, che appariva chiaramente impari ai pesi da portare.
Sono toccanti le parole con cui lo stesso Papa ha espresso tutto questo: “Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di San Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato”.
Appare in queste espressioni la grandezza dell’uomo spirituale, che tutto considera nella verità davanti a Dio e sceglie infine ciò che è più conforme secondo la sua coscienza al servizio d’amore da rendere. La lucida consapevolezza del compito e la non meno lucida coscienza del degradare delle proprie forze fisiche trovano sintesi in quest’atto di amore a Cristo e alla Chiesa, per cui il Papa rinuncia al servizio pontificale e sceglie la via del silenzio orante e dell’umiltà confessante: “Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio”.
Emerge così in quest’atto, semplice e solenne, storico per la sua portata, anche se non unico nella bimillenaria vicenda della Chiesa Cattolica, quello che è stato il vero motivo ispiratore di questi otto anni di pontificato: la riforma spirituale della Chiesa, alla luce del primato assoluto della fede in Dio. Sorge spontanea l’analogia con Celestino V, il Papa santo, che rinuncia al servizio petrino dopo appena un mese di pontificato perché ritiene di poter meglio servire il popolo di Dio con la preghiera e con l’offerta sacrificale di sé.
È in nome dell’obbedienza a Dio e alla verità che solo gli rende gloria, che Benedetto XVI ha affrontato e governato la dolorosa vicenda degli abusi sessuali, presenti fra alcuni membri del clero specialmente nelle decadi della seconda metà del secolo passato. Convinto della forza della parola di Gesù “la verità vi farà liberi” (Giovanni 8,32), questo Pontefice ha voluto che si facesse piena verità, anzitutto a sostegno delle vittime e poi per intraprendere coraggiosi cammini di purificazione e di rinnovamento. Con la stessa fiducia in Dio Papa Ratzinger ha portato avanti con decisione il suo rapporto di privilegiata amicizia verso il popolo ebraico, la cui fede è santa radice di quella dei cristiani, come pure il dialogo franco e sereno con le grandi religioni universali e in particolare con l’Islam, certo che il Dio unico avrebbe guidato i credenti sinceri sulle vie della pace. In campo ecumenico, la mano tesa alle diverse tradizioni confessionali si è aperta anche a proposte coraggiose verso i seguaci di Mons. Lefebvre, anche qui confidando nell’esigenza di ogni autentico credente di voler piacere a Dio e non ai propri sostenitori mondani.
All’interno della Chiesa cattolica, poi, questo Papa ha promosso la riforma spirituale, insistendo mediante continui e profondi insegnamenti sulla necessità della conversione dei cuori e del rinnovamento dei costumi, premessa indispensabile di ogni possibile rinnovamento strutturale. La riforma, aveva scritto da giovane Professore, “consiste nell’appartenere unicamente e interamente alla fraternità di Gesù Cristo… Rinnovamento è divenire semplici, rivolgersi a quella vera semplicità… che in fondo è un’eco della semplicità del Dio uno. Questo è il vero rinnovamento per noi cristiani, per ciascuno di noi e per la Chiesa intera” (Il nuovo popolo di Dio, Brescia 1971, 301. 303).
L’autentica riforma, voluta da questo Papa, è stata, insomma, quella della conversione evangelica, la sola capace di fare della Chiesa un segno credibile di luce e di speranza per tutti. Sarà dal riconoscimento del primato di Dio confessato e amato che verrà la nuova primavera, di cui il popolo di Dio e gli uomini tutti hanno necessità assoluta. “Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia – aveva detto qualche settimana prima di diventare Papa – sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo… Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini” (Subiaco, 1 Aprile 2005).
Con il suo pontificato e, in modo singolare, con quest’atto umile e grande della rinuncia ad esso per amore di Cristo e della Chiesa, Benedetto XVI ha dimostrato – al di là di ogni possibile incomprensione – di essere un uomo così. Ed è grazie a uomini come lui, che – come egli stesso diceva tre giorni fa ai Seminaristi di Roma – “l’albero della Chiesa non è un albero morente, ma l’albero che cresce sempre di nuovo”.