L’11 febbraio 1858 la Vergine Maria appare alla giovanissima Maria Bernarda Soubirous nella grotta di Massabielle, sui Pirenei. Nelle sue apparizioni, la Madonna si manifesta a Bernadette dicendo “Io sono l’Immacolata Concezione”.
Solo quattro anni prima, con la bolla Ineffabilis Deus (8 dicembre 1854), Pio IX aveva definito il dogma dell’immacolato concepimento di Maria, ponendo in evidenza che la Vergine fu preservata dal peccato originale. Veniva così definita, dopo secoli di approfondimento teologico, una importante questione relativa alla persona ed al ruolo della Vergine Maria nel piano provvidenziale della Redenzione.
Nel 1870, Pio IX commissionò al pittore Cocchetti un dipinto raffigurante l’Immacolata, per l’arcosolio del presbiterio di Santa Maria in Trastevere: questo potrebbe essere considerato il primo dipinto legato al dogma dell’Immacolata Concezione, ma in realtà la pittura, tanto quanto la riflessione teologica, nel corso dei secoli era già stata chiamata a meditare questo tema. Già i Padri della Chiesa avevano accostato Eva e Maria, proprio per sottolineare che la Vergine era stata concepita senza il peccato, e con il passare del tempo l’assunto Semper Virgo. Dei Genitrix. Inmaculata era stato abbracciato da un numero sempre crescente di fedeli e difeso dai pontefici, fino a giungere alle celebri costituzioni di Sisto IV (Cum praeexcelsa, 1477, Grave nimis, 1483), confermate nella quinta sessione del Concilio di Trento nel Decretum de peccato originali (1546), su proposta soprattutto del card. Pietro Pacheco di Jaen. Questo cammino della Chiesa, coronato dalla definizione dogmatica di Pio IX, si specchia nel percorso dell’arte.
Il tema pittorico dell’Immacolata trova nascita nell’Italia meridionale e particolare diffusione in Spagna. Si definisce dal punto di vista iconografico intorno alla fine del Quattrocento[1], come dimostrano alcuni dipinti conservati in Italia, in Francia ed in alcune regioni della Penisola Iberica, e tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento gode di grande popolarità in Italia e, in modo speciale, in Spagna.
Fu per l’appunto uno spagnolo, Francisco Pacheco, che nel suo trattato Arte de la Pintura del 1638 ha fornito una guida chiara per raffigurare in maniera corretta l’Immacolata, riassumendo senza dubbio gli elementi comuni alle immagini che aveva visto e che giudicava affidabili; fra queste vi erano le immagini riprodotte sulle medaglie che Leone X aveva benedetto agli inizi del Cinquecento su istanza dell’ordine francescano, fedele difensore del privilegio di Maria (anche Sisto IV era dell’ordine dei frati minori): “ Si deve…dipingere…questa Signora nel fiore della sua età, da dodici a tredici anni, bellissima bambina con begli occhi e sguardo grave, naso e bocca perfettissimi e rosate guance, i bellissimi capelli lisci, color oro… deve dipingersi con tonaca bianca e manto blu vestita del sole, un sole ovale ocra e bianco, che circundi tutta l’immagine, unito dolcemente con il cielo; coronato di stelle; dodici stelle distribuite nel circolo chiaro fra splendori, servendo di punto alla sacra fronte; le stelle su alcune macchie chiare formate a secco di purissimo bianco, che esca sopra tutti i raggi… Una corona imperiale deve adornare la sua testa ma che non copra le stelle; sotto i piedi, la luna che benché sia un globo solido, prese licenza per renderlo chiaro, trasparente sui paesi; nella parte di sopra, più chiara e visibile la mezza luna con le punte verso il basso…I tributi di terra si accomoderanno, convenientemente, per paese, e quelli del cielo, se vogliono fra le nubi. Adornasi con serafini e con angeli interi che hanno alcuni degli attributi… il dragone… al quale la Vergine spaccò la testa trionfando dal peccato originale…se potessi lo eliminerei per non disturrbare il quadro”. Queste indicazioni normative del Pacheco non solo traducono la visione della Apocalisse, ma sembrano anche descrivere la tela che Zurbarán aveva dipinto per il collegio religioso di Nuestra Señora del Carmen de Jadraque, nel 1632.[2]
In questa tela, infatti, troviamo magistralmente raffigurata l’Immacolata, con tutti i suoi attributi iconografici. Il primo dei simboli, il sole, non è presente come astro, ma come luce che si irradia da dietro la figura della Vergine, facendo sì che questa si presenti come una “donna vestita di sole” (Ap 12,1). Le dodici stelle ornano simbolicamente l’aureola, la quale si tramuta in una vera apoteosi di teste di cherubini, che aprono il cielo fisico verso lo spazio delle sfere celesti. L’immagine quasi statuaria della Vergine si colloca in uno spazio assolutamente ideale, che sta a metà tra cielo e terra. Il suo alone di luce irradia un caldo ammasso di nuvole, in cui spiccano quattro attributi mariani; tra squarci di nubi a sinistra si vede la Porta del Cielo, Porta coeli (Gen 28,17) e la Scala di Giacobbe o del cielo, Scala coeli (Gen 28,12) a destra la Stella del Mare, Stella maris (Himn. Lit.) e lo Specchio senza macchia, Speculum sine Macula (Sap 7,26).
Nella parte inferiore del dipinto un paesaggio che si stende come una marina, a ricordare l’etimo poetico del nome della Vergine, riunisce una infinità di attributi mariani in un luogo reale e al tempo stesso simbolico, concepito appositamente per la contemplazione del fedele raccolto in preghiera, davanti al creato posto ai piedi di Maria. Ecco che, a saperlo guardare, il paesaggio si tramuta nell’Orto Sacro, Hortus Conclusus (Ct 4, 12), nel quale crescono fiori di campo rossi e bianchi, Flos campi, e dove si ergono la Torre di Davide, Turris David (Ct 4,4), il cipresso, Cypressus in monte Sion (Sir 24,17), il Tempio dello Spirito Santo, Templum Spiritus sancti (I Cor 6,19), la palma, Palma exaltata in Cades (Sir 24,18), i cedri, Cedrus exaltata in Libano (Sir 24,17), e gli ulivi, Oliva Speciosa (Sir 24,19). Al centro, il pozzo delle acque vive, Puteus aquarum viventium (Ct 4,15), e la fonte della grazia o dell’orto, Fons hortorum (Ct 4,15).
Zurbarán dipinge questa tela come una visione; mostra ai nostri occhi tutta la bellezza, lo splendore e la fragranza della natura immacolata di Maria e ci invita a rimanere con lei nel luogo delizioso che ha accolto il Verbo incarnato in un tripudio di colori e di forme belle. In casi come questo, l’arte stessa si rivela come un dono magnifico che Dio ha offerto all’umanità per contemplare, in un modo del tutto particolare, la bellezza dei suoi doni e del suo amore. Carlo Chenis scrisse a tal riguardo che «l’Immacolata sprigiona bellezza originale ed escatologica, così che la visione estetica di quanto la ravvisa conduce alla visione estatica di quanto la glorifica» e «lo splendore artistico rivela il reale nella sua totalità complessa» in quanto è « svelamento dei fondamenti ultimi, è metafora della gloria divina, è impronta della divina sostanza. Gli attributi che lo descrivono sono l’intergrità, in quanto occorre compiutezza intrinseca, e la conoscenza, poiché nihil est ordinatum quod non sit pulchrum»[3]
Rodolfo Papa, Esperto della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, docente di Storia delle teorie estetiche, Pontificia Università Urbaniana, Artista, Accademico Ordinario Pontificio.
Website: www.rodolfopapa.it Blog: http://rodolfopapa.blogspot.com E-mail: rodolfo_papa@infinito.it .
*
NOTE
[1] Riguardo alcuni sviluppi del tema iconografico dell’Immacolata tra Cinquecento e Seicento Cfr. Rodolfo Papa, Leonardo teologo. L’artista «nipote di Dio», Ancora Milano 2006, pp. 86-148; Rodolfo Papa, Caravaggio pittore di M
aria, Ancora, Milano 2005, pp. 67-76.
[2] Cfr. Rodolfo Papa, I colori dello Spirito. Capolavori dell’arte cristiana tra il XIV e il XVII secolo, Ed. Paoline, Milano 2005, pp. 15-22.
[3] Carlo Chenis, Tota pulchra, perché tutta pura. Paradigmi estetico spirituali dell’Immacolata, in Una donna vestita di sole. L’Immacolata Concezione nelle opere dei grandi maestri, catalogo mostra a cura di G. Morello, V. Francia, R. Fusco, 11 febbraio-13 maggio 2005, Braccio di Carlo Magno, Città del Vaticano, F.M.Editore, Milano, 2005, pp. 14-17.