Il cappellano nel villaggio olimpico: una presenza amica in mezzo a tanti giovani

Una figura introdotta dall’Italia e oggi adottata da diversi Paesi

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ROMA, mercoledì, 25 luglio 2012 (ZENIT.org) – Nel mondo dello sport la dimensione scaramantica è fortemente presente, quindi la presenza di un cappellano è utile ad evitarla. E gli atleti riescono a capire che il prete non è un portafortuna, ma una presenza amica.

Nell’approccio alla fede, lo sport è un terreno fertile, perché è una metafora dell’esistenza stessa. Uno spazio, quello del villaggio olimpico, che per il cappellano si trasforma in parrocchiale o oratoriale, dove la figura del prete viene molto apprezzata e la molteplicità delle situazioni porta a stabilire rapporti differenziati.

A questo proposito ZENIT ha raggiunto telefonicamente il cappellano degli Azzuri, Mario Lusek, già a Londra in attesa delle Olimpiadi, che nell’edizione imminente ospiterà 26 sport, suddivisi in 35 discipline.

Come nasce questa scelta di inviare un cappellano ai giochi olimpici?

Don Lusek: La scelta del Comitato Olimpico Italiano di portare un cappellano risale alle Olimpiadi di Seul, quindi ormai di lunga data, ed è stata l’Italia, la prima ad ammettere questa figura, per merito del presidente Giovanni Petrucci. Una presenza significativa dal punto di vista dell’accompagnamento, della vicinanza, dell’attenzione della Chiesa verso il mondo degli atleti. Il mio predecessore, Don Carlo ha fatto cinque olimpiadi, per me questa è la terza, comprese quelle invernali.

Che compito svolge il cappellano?

Don Lusek: Anche se all’interno del villaggio olimpico esiste un centro multireligioso per le confessioni cristiane e le religioni più diffuse. La figura del cappellano italiano è originale perché all’interno di una struttura, che sta insieme agli atleti, quindi dimostra questa vicinanza amica tra il mondo della Chiesa e il mondo dello sport.

Da chi dipende un cappellano delle olimpiadi?

Don Lusek: La mia funzione di cappellano nasce dal fatto che sono direttore dell’ufficio della Pastorale del tempo libero, turismo e sport, quindi c’è un rapporto istituzionale tra la Chiesa italiana e il mondo dello sport in quanto tale. Promuoviamo anche, attraverso l’associazionismo di ispirazione cristiana, una presenza capillare nella Chiesa, nelle parrocchie, oratori, e centri di aggregazione, dove c’è una presenza storica.

Avete celebrato già qualche messa?

Don Lusek: Con la nostra delegazione, domenica scorsa abbiamo celebrato nella Chiesa degli Italiani a Londra, alla presenza del nunzio apostolico Antonio Mennini, ed è stata una esperienza molto significativa dal punto di vista religioso. Qui il cardinale Bagnasco ha inviato un suo messaggio particolare, e il 30 si terrà una celebrazione nell’abbazia di Westminster rivolta a tutte le componenti cattoliche.

Le altre nazionali hanno un loro cappellano?

Don Lusek: Alcune nazioni, dopo l’esperienza italiana si sono organizzate, come, ad esempio, la Polonia, l’Austria, la Germania, e anche l’Inghilterra visto che è un evento che si gioca “in casa”.

Come vive un atleta un rapporto con Dio quando deve dare il meglio di se in una gara sportiva?

Don Lusek: Noi viviamo una esperienza particolare poiché ci sono migliaia di atleti. Nel contingente italiano siamo oltre trecento persone, con una cultura ed un’esperienza sicuramente differenziata. Nell’approccio alla fede, lo sport è un terreno fertile, perché è una metafora dell’esistenza. L’agonismo sportivo e l’agonismo spirituale possono coincidere come prospettiva esistenziale. D’altronde lo sport predispone alla fatica, all’impegno alla responsabilità e questo, per un agonismo di natura spirituale, è importantissimo. Promuove l’unità della persona.

Quindi lei lavora all’interno del villaggio olimpico…

Don Lusek: Considero il villaggio olimpico come uno spazio parrocchiale o oratoriale, dove nessuno è indifferente alla figura del prete, una figura molto apprezzata e condivisa ma dove la molteplicità delle situazioni porta a rapporti differenziati. Quindi si incontrano persone che chiedono, domandano, partecipano alla Santa Messa, altri invece rimangono sui rapporti umani informali, di dialogo e di confronto, dove non c’è ostilità né rischio per la presenza del prete. E questo è già un fattore importante che ci rende prossimi, e fa percepire che la Chiesa è vicina a questo fenomeno, non è ostile e vuole accompagnare.

Ci sono stati casi di conversioni, o particolari?

Don Lusek: Esistono diverse inquietudini interiori che si manifestano con delle domande e delle ricerche. Conversioni improvvise sicuramente no, ma ricerca, dialogo e confronto sicuramente sì, e nei momenti e nei luoghi più incredibili. D’altronde non è la Chiesa che fa le Olimpiadi: siamo ospiti e si accompagna questa esperienza con un atteggiamento di disponibilità e di attenzione. Mettiamo al centro la persona e con la persona dialoghiamo in profondità, rispettando anche le situazioni faticose che qualcuno può vivere.

Quale è il profilo dell’atleta?

Don Lusek: Non dimentichiamo che la maggior parte degli atleti sono giovani e vivono la loro esperienza con tutte le tensioni tipiche della giovinezza. Quindi abbiamo giovani inquieti, giovani in ricerca, su cui sono puntati gli occhi di tutto il mondo e da cui tutti si aspettano il meglio. E questo per un ragazzo è anche tensione, ansia e preoccupazione. E quando arriva successo è una liberazione da questa ansia. E quando la fatica aumenta qualche disagio si manifesta.

Ma nel mondo dello sport, rimane chiaro al ragazzo che il fattore religioso non è un portafortuna?

Don Lusek: Nel mondo dello sport la dimensione scaramantica è fortemente presente, ma cerchiamo di evitare questa dimensione attraverso una vicinanza umana che fa percepire proprio il motivo per cui siamo accanto a loro, che il prete non è un portafortuna, ma una presenza amica che incoraggia e che vive la stessa esperienza degli uomini del villaggio.

Vale a dire che anche il cappellano in qualche modo vive questa esperienza sportiva?

Don Lusek: Sì, si entusiasma, si appassiona, condivide le gioie per le vittorie e rimane deluso anche lui quando c’è qualche sconfitta da subire. L’importante è capire che la sconfitta è un modo per ricominciare da capo, e che lo sconfitto non è un perdente.

E il fatto che alcuni fanno il segno della croce prima di cominciare?

Don Lusek: In genere non lo fanno per scaramanzia ma come una testimonianza della loro fede, e questo si trasforma in una testimonianza pubblica. Quindi sono favorevole.

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ZENIT Staff

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