Quando le bombe non fermano la fede

Una visita alla chiesa di S. Giorgio al Velabro

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di Paolo Lorizzo*

ROMA, sabato, 14 luglio 2012 (ZENIT.org).- Nella notte del 28 luglio dell’ormai lontano 1993 una bomba squassò le fondamenta dello Stato Italiano e di una chiesa situata ai piedi del colle Palatino, nell’area pianeggiante del Velabro, oggi un piccolo e tranquillo quartiere del centro storico, poco distante dalla ben più famosa chiesa di S. Maria in Cosmedin. Cento chili di esplosivo all’interno di un’auto parcheggiata dinanzi all’edificio causarono il crollo quasi totale del vestibolo d’ingresso e aprì un grosso squarcio sulla facciata, causando dissesti statici e danni all’attiguo convento. Una ferita ancora non del tutto rimarginata nel cuore e nella mente di chi visse da vicino l’intera vicenda, a tratti incomprensibile da chi utopicamente crede sia ancora possibile   sconfiggere il male in questo mondo.

La forza di volontà, la fede ed il coraggio di non arrendersi permise non sono di ricostruirne le parti danneggiate, ma di farne un simbolo della vittoria dello Stato. Come la fenice che completava il ciclo vitale risorgendo dalle proprie ceneri, anche la chiesa di S. Giorgio al Velabro seppe rinascere dalle proprie macerie attraverso interventi mirati atti al consolidamento e alla ricostruzione muraria di tutte le parti danneggiate. Il settore più colpito era quello del portico, il quale, nonostante la deflagrazione, venne ricostruito utilizzando integralmente l’arco centrale in mattoni, posizionato nella campata centrale, crollato ma miracolosamente intatto. Oltre al restauro quasi integrale del portico, il rifacimento del tetto, il restauro dell’interno e il consolidamento del campanile, si provvide a richiudere la breccia sul lato destro della facciata, ricollocando al loro posto tutte quelle testimonianze di epoca altomedievale strettamente connesse con la storia dell’edificio.

La sua origine risale probabilmente all’età tardo-antica, poco prima che papa Adriano I la elevò a diaconia cardinalizia nel 570. E’ comunque indubbio che la chiesa sorse sulle rovine di una precedente costruzione di epoca imperiale. E’ sufficiente infatti entrare nella navata centrale e ci si accorgerà dell’asimmetria tra i vari settori architettonici, ma anche dal fatto che la larghezza della facciata sia maggiore rispetto alla parete di fondo terminante con un’abside. L’interno è diviso in tre navate, scandite da due file di colonne tutte diverse tra loro e provenienti da edifici di epoca romana che un tempo sorgevano nell’area. L’altare maggiore, risalente al VII secolo, è collocato poco più avanti dell’abside che presenta un piano leggermente rialzato. Esso è affrescato con l’immagine del Cristo tra i Santi Giorgio e Sebastiano, di incerta attribuzione (alcuni ritengono possa essere stato realizzato da Giotto, altri da Pietro Cavallini). All’interno sono visibili anche frammenti di età bizantina come quelli di un paliotto e di un ‘recinto presbiteriale’, oltre ad un pluteo del IX secolo realizzato sotto il pontificato di Gregorio IV.

La chiesa sorge in un luogo strettamente legato con la nascita di Roma. La tradizione infatti ritiene che questo fosse il luogo dove si arenò la cesta che conteneva i due neonati, i fratelli Romolo e Remo, in seguito allattati dalla lupa. Quest’area dunque era una palude, fino a quando Tarquinio Prisco, grazie al completamento della Cloaca Maxima, bonificò le aree dei Fori e del Velabro rendendole praticabili. Il tratto della cloaca è attualmente visibile al di sotto delle fondazioni di una struttura monumentale nota con il nome di ‘Arco di Giano Quadrifronte’. Il monumento venne edificato durante la prima metà del IV secolo d.C. ma ancora di incerta attribuzione. Sappiamo infatti che può identificarsi con l’Arcus Divi Costantini, citato dai ‘Cataloghi Regionari’ sul cui attico era probabilmente collocata un’iscrizione marmorea i cui frammenti sono murati nella vicina chiesa. Qui si fa riferimento ad un ‘imperatore che ha sconfitto un tiranno’ descrizione che potrebbe riferirsi sia a Costantino I che a Costante II.

Contrariamente a quanto si possa pensare il termine ‘Giano’, associato all’arco, non fa riferimento al dio ‘bifronte’ (la cui iconografia è ben nota), ma al termine ‘ianus’ cioè uno spazio coperto. Non siamo infatti dinanzi ad un’opera realizzata per celebrare un trionfo imperiale ma ad uno spazio per i banchieri che operavano nel foro Boario e avevano bisogno di un luogo ove riunirsi anche nei periodi di pioggia o di estrema calura.

Attigua alla chiesa, anzi, per meglio dire, inglobata nella sua struttura, è un piccolo monumento che viene definito ‘Arco degli Argentari’. Non si tratta di un vero e proprio arco, ma di un piccolo monumento, un tempo situato lì dove il ‘vicus iugarius’ (strada di collegamento al foro) menava verso il foro Boario. Esso venne finanziato e dedicato dagli argentarii et negotiantes boari huius loci (banchieri e negozianti) alla famiglia imperiale composta da Settimio Severo, da sua moglie Julia Domna e dai figli Marco Aurelio Antoniano Bassiano, detto ‘Caracalla’ e suo fratello Geta, in seguito assassinato dallo stesso Caracalla per non dividere il trono imperiale. Alcune immagini della famiglia imperiale sono ancora visibili, ma molte sono le porzioni andate perdute a causa del tempo e delle cancellazioni, probabilmente volute dallo stesso Caracalla dopo l’assassinio del fratello.

Il piccolo angolo del Velabro racchiude, come molti scorci di Roma, infinite sorprese e curiosità, degne di essere analizzate ed assimilate per una migliore conoscenza della nostra storia perchè chi impara dal passato potrà fare proprio il presente e il futuro potrà renderlo migliore per se e per il suo prossimo.

* Paolo Lorizzo è laureato in Studi Orientali e specializzato in Egittologia presso l’Università degli Studi di Roma de ‘La Sapienza’. Esercita la professione di archeologo.

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ZENIT Staff

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