di Davide Rondoni*
ROMA, venerdì, 13 luglio 2012 (ZENIT.org) – In nome dell’amore, dicono gli uni, occorre fare la scelta di tipo A. In nome dell’amore, rispondono gli altri, bisogna fare la scelta di tipo B. Accade spesso così nelle discussioni che sorgono spesso intorno ai temi che chiamiamo di bioetica, o comunque che riguardano faccende delicate, come i trattamenti di fine vita, o la ricerca sulle vite nascenti, o la fecondazione, o cose di questo genere. E accade di sentire giustificare una scelta, o quella opposta, in nome dell’amore.
Ma allora significa che l’amore dell’uno è vero e che invece l’altro è finto? Possiamo forse giudicare l’amore di un padre che decide di cercare la fine a una situazione di sofferenza di un figlio? O viceversa, possiamo ritenere che non sia amore la tenacia con cui un genitore continua –pur nella sofferenza- la lotta di vita del suo nato? O in altri casi, anche meno estremi, si motivano scelte e indirizzi etici in nome dell’amore.
Il che rende non solo odiose tali discussioni – perché, ripeto, chi può giudicare l’amore? – ma anche inutili, poiché le consegna a una zona nebulosa di sentimentalismo dove tutte le questioni si confondono, perdono nettezza. In certi casi, si può dire paradossalmente, l’amore vero consiste nel lasciar fuori l’amore. Ovvero può essere più umano, più amoroso, lasciar fuori l’amore dalle faccende che riguardano limiti scottanti dove scienza e vita si confrontano, contendono i propri diritti, cercano le proprie ragioni.
Perché l’amore non è un sentimento, come sapevano bene gli antichi e i grandi poeti come Dante, ma una forza. Un dio. Un dio che si insedia nel cuore di un uomo e lo possiede. Non coincide con i sentimenti. Anzi, a volte si può provare addirittura ira verso qualcuno – quante volte – e pur questo sentimento risulta essere meno forte dell’amore che ci lega a quella persona, un figlio, un padre, un amata, un amico.
Tutte le madri del mondo sanno che quando il loro piccolo figlio piange per la quarta volta durante la notte, il “sentimento” che provano nei suoi confronti può essere di mal sopportazione, o di ira, o di sconforto. Ma si alzano, anche nel cuore della notte. E quella forza è l’amore. Se dunque l’amore è una forza, non coincide con quello che proviamo a livello del sentire, del sentimentale. Dunque è improprio invocare l’amore a proposito della definizione di scelte etiche come se stessimo evocando qualcosa che sentiamo.
Si arriva a una specie di gara bastarda di chi sentirebbe più amore, di chi ne proverebbe di più, di chi in nome dell’amore presume di essere migliore di altri. Per questo la bioetica deve stare ancorata al freddo, micidiale, ragionar di dati e di operazioni, al duro registro delle possibilità e delle conseguenze. E misurare i gesti e i fatti, non le intenzioni o l’amore. Solo in questo modo diviene una vera scienza che ha che fare con l’amore.
Ma inteso appunto, in modo irrefutabile e umile come una forza. Un movimento delle cose dell’universo e delle altre stelle, come diceva Dante che non stava – infine ai canti della sua Commedia – coniando una nuova “metafora”, ma stava indicando la natura stessa del vivente e la sua dinamica attrattiva. Chi affronta questioni di bioetica accetta di occuparsi di confini, di terre incognite, dove amore spira e domina.
Ma appunto, non l’amore inteso come proprietà del sentire di uno o dell’altro contendente sulle diverse scelte. Bensì come forza, come campo magnetico in cui tutto il dramma succede. La bioetica è un dramma d’amore. Ma non perché uno o l’altro possa arrogarsi di usare più amore degli altri. Si tratta infatti di giudicare quanto si usa di ragione, di lealtà davanti ai fatti, e di fronte alle parole che ci restituiscono i fatti.
Potremo misurare se una scelta o l’altra siano la migliore dalla torsione dei fatti, dalla fuga davanti al senso delle parole, dalla mascheratura delle conseguenze, dalla lettura parziale dei dati. Si potrà giudicare in nome della lealtà di fronte al reale e alle sue problematiche evidenze. Occorre in questo senso essere davvero “innamorati” – posseduti da amore, non suoi presunti proprietari – per accettare la forza della evidenza del reale.
Posseduti cioè determinati dal presentarsi della realtà, non dal nostro sentire. Dalla forza di “quel che move il sole e l’altre stelle”. Amore contro sentimento, dunque. Che è come dire: piegarsi davvero all’amore, riconoscendo il valore primario dell’affectus, del legame con il reale e i suoi mobili, enigmatici dati.
* Poeta, scrittore
Consigliere nazionale Associazione Scienza & Vita
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