Cento affreschi da salvare nei meandri sotterranei

Firmata la convenzione per il restauro dei cubicoli dipinti delle catacombe romane dei santi Marcellino e Pietro

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di Fabrizio Bisconti

ROMA, lunedì, 2 luglio 2012 (ZENIT.org).- Riprendiamo l’articolo in cui Fabrizio Bisconti, professore di Iconografia Cristiana e Medievale presso l’Università Roma Tre e segretario della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, presenta la recente firma della convenzione tra la Fondazione Heydar Aliyev dell’Azerbaijan e la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra per il restauro dei cubicoli dipinti del complesso catacombale dei santi Marcellino e Pietro, situato sulla Via Casilina a Roma. L’articolo è stato pubblicato sull’edizione de L’Osservatore Romano del 2-3 luglio.

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In questi giorni la catacomba dei santi Pietro e Marcellino, molto nota ai romani che vivono nel popolare quartiere di Torpignattara, ma sconosciuta ai turisti che approdano a Roma, è assurta agli onori della cronaca. Il gesto della first lady dell’Azerbaijan, presidente della Fondazione Heydar Aliyev, che permetterà di restaurare una cospicua porzione delle decorazioni della catacomba, ha fatto il giro del mondo. Il felice incontro del cardinale Gianfranco Ravasi e di Mehriban Aliyeva ha riaperto le porte di una catacomba, estremamente ricca di testimonianze archeologiche e storiche, destinata a rimanere chiusa al pubblico per l’entità degli interventi conservativi da intraprendere, prima di rendere agibili i suggestivi meandri ipogei, costellati di circa cento affreschi del III e del ivsecolo.

Le catacombe dei santi Pietro e Marcellino sono anche note come il cimitero ad duas lauros inter duas lauros, cioè «presso i due allori». In questa maniera la necropoli sotterranea è infatti definita nelLiber Pontificalis, l’opera che raccoglie l’attività dei Pontefici dell’antichità. Ebbene, nella biografia di Papa Silvestro (314-335), il Pontefice contemporaneo dell’imperatore Costantino, si colloca in quest’area, sita al III miglio della via Labicana, odierna via Casilina, il cimitero comunitario, con una basilica martiriale e il mausoleo a pianta centrale, che ospitò il corpo di Elena.

Tale complesso fu dotato dall’imperatore di una smisurata quantità di donazioni, sia per quanto riguarda gli arredi liturgici e i materiali preziosi, sia per quanto attiene le proprietà fondiarie, le cui rendite superavano, di gran lunga, quelle affidate alla basilica di San Pietro in Vaticano.

Se il complesso era già noto al grande archeologo maltese Antonio Bosio, alla fine del Cinquecento, le indagini sistematiche iniziarono negli anni Quaranta del secolo scorso e trovarono il loro momento più fortunato alla fine dello stesso, quando furono valorizzate intere aree interessate da affreschi con il tema del banchetto funebre e con la figura del fossore, lo scavatore delle catacombe cristiane. Questi due elementi dimostrano come l’arte catacombale propone una componente augurale e salvifica, ma anche un’oscillazione tra iconografia del reale, ossia del vissuto quotidiano, e una simbologia oltremondana.

Il complesso fu sistemato sulla necropoli degli equites singulares, la cavalleria posta a guardia dell’imperatore, istituita nel i secolo dell’era cristiana, ma sciolta da Costantino stesso, in quanto tale corpo di guardia, in occasione della battaglia di Ponte Milvio, si era schierata con il nemico Massenzio. Dopo la battaglia, Costantino fece obliterare la necropoli degli equites, di cui sono state rinvenute molte stele funerarie, con la stessa sistematicità con cui furono rasi al suolo i loro castra, nei pressi del Laterano, proprio laddove sarebbero sorte le fabbriche dell’episcopio, del battistero e della cattedrale.

Ma le catacombe dovettero essere nate prima dell’intervento costantiniano, almeno dal III secolo, come dimostrano le innumerevoli pitture, riferibili a questo secolo e gli immensi labirinti, che raggiungono i quattro piani e che così furono definiti dal Bosio, quando li vide, per la prima volta nel 1594: «Questo cimiterio è uno delli più grandi et ampli e più magnifici di quanti habbiamo veduti».

Se nel Seicento e nel Settecento le catacombe furono violate e devastate dall’opera dei “corpisantari”, nell’Ottocento Giovanni Battista de Rossi iniziò uno scavo sistematico che evidenziò un’area antica sorta — come si diceva — nel III secolo e, segnatamente, tra la persecuzione di Valeriano (258) e quella di Diocleziano degli esordi del iv secolo. Durante questo periodo, definito «piccola pace della Chiesa» nacque il primo nucleo della catacomba, in corrispondenza dell’area che rispettava, al sopraterra, il recinto funerario degli equites singulares.

Al tempo di Costantino, con l’obliterazione della necropoli pagana, sorse la basilica circiforme e la grande rotonda di Elena, che si agganciò al lato corto dell’edificio, mentre un grande portico, che sorse in corrispondenza della via Labicana, dava accesso alla chiesa.

Nella catacomba, oltre ai santi Pietro e Marcellino, uccisi durante la persecuzione dioclezianea, erano sepolti anche Tiburzio e Gorgonio, ricordati, tra l’altro, in un grande affresco degli inizi del vsecolo, dove i martiri eponimi acclamano Cristo con Pietro e Paolo. Tale affresco imita, con grande probabilità, una megalografia, che doveva decorare il triforio della basilica soprastante.

Nel Martirologio Geronimiano, il prezioso documento agiografico del v secolo, sono anche ricordati quaranta martiri che vanno forse identificati con il celebre gruppo dei martiri di Sebaste, congelati in un lago ghiacciato armeno al tempo di Licinio. Un santuario, con preziose pitture martiriali, sembra essere stato recentemente recuperato dagli archeologi proprio presso la tomba dei santi Pietro e Marcellino, ai quali fu dedicata una basilica semipogea e un solenne epigramma damasiano, ispirato alle parole del boia che eseguì il martirio.

Nelle catacombe erano, poi, venerati, i santi Quattro Coronati, un gruppo di martiri romani provenienti dalla Pannonia — trasformati in romani da una passione medievale — a cui fu intitolata la splendida basilica celimontana.

Il complesso dei santi Pietro e Marcellino presenta una delle “pinacoteche” più ricche dell’arte paleocristiana e, se alcuni rari affreschi risalgono ancora al III secolo, gli altri si riferiscono al tempo della pace e raccontano il graduale processo di cristianizzazione di un complesso funerario estremamente ricco ed eloquente della storia dell’arte tardoantica. Tali affreschi sono ora provati dall’incuria o dall’eccessiva attenzione degli uomini che li hanno deturpati con “strappi” o energici interventi di restauro. Il contributo generoso della Repubblica dell’Azerbaijan permetterà di recuperare un patrimonio di inestimabile valore e di ricostruire la storia del pensiero, delle idee e della fede dei primi secoli di una Roma cristiana multietnica, internazionale e multireligiosa.

(©L’Osservatore Romano 2-3 luglio 2012)

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ZENIT Staff

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