ROMA, sabato, 17 dicembre 2011 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il discorso pronunciato oggi dal cardinale Angelo Bagnasco alla Pontificia Università Gregoriana (PUG) di Roma durante la Giornata di riflessione sulla formazione sociale e politica di Retinopera.
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Cari Amici,
sono lieto di partecipare a questa Giornata di riflessione sulla formazione sociale e politica di Retinopera. C’è un tema ricorrente nei nostri discorsi, specialmente in quelli più impegnati, e che si presenta cruciale in particolare se riferito alla responsabilità della singola persona rispetto alla realtà storico-politica: è il tema della coscienza. Ci poniamo dunque nel campo che è particolarmente vostro, di voi associazioni e movimenti di ispirazione cristiana che, mantenendo un legame esplicito con la comunità cristiana, guardate alla realtà secolare che costantemente interpella. Argomento di per sé trasversale, quello della coscienza, rispetto ai differenti ambiti che vi vedono coinvolti (esistenziale, nuziale, familiare, professionale, sociale, politico…). Ed è nel contempo un argomento che, per natura sua, richiede una considerazione che non rimanga in superficie, per guadagnare invece una prospettiva più profonda, alla radice stessa della persona, al suo modo di essere e di porsi rispetto agli accadimenti e ai problemi che le si presentano.
Che cosa dunque intendiamo per coscienza? È la voce di Dio dentro di noi, è una struttura antropologica fondamentale insita alla persona, che appartiene quindi alla nostra essenza. È la consapevolezza della responsabilità davanti all’insieme della creazione e davanti a Chi l’ha creata. La parola coscienza ricorre spesso nel linguaggio corrente, sia in quello più colto sia in quello più popolare, per situazioni e contingenze le più diverse, e non sempre a proposito. La modernità ha individuato infatti nel tema della coscienza una delle sue frontiere più emblematiche. E certo non ci costa – anzi − riconoscere che col progredire dell’esperienza storica, non siano poche le prove di affinamento che questo concetto ha avuto da parte anche laica, a riprova di un’inquietudine talora incandescente che gli uomini sentono circa le responsabilità verso la vita e la storia. Così non ci dispiace apprezzare l’impegno strenuo di quanti, in nome dell’uomo, si battono per valori che ci sono comuni, o che rientrano anche solo nell’orizzonte laico, ma interpretati tuttavia in una tensione costante e con passione esplicita. Non raramente, nel nostro contesto, si tratta di esperienze che hanno avuto nella religione cristiana e cattolica l’humus vitale propizio per interiorizzare l’ alfabeto di idealità e moralità.
Tuttavia non possiamo tacere che questa parola trova, specie nella fluidità del post-moderno, versioni e citazioni intrinsecamente ambigue. “La religione dell’uomo», come il Papa Paolo VI definì il cattolicesimo in una circostanza solenne come l’allocuzione conclusiva del Concilio Vaticano II, il 7 dicembre 1965 (il prossimo anno celebreremo il cinquantesimo d’inizio di quello storico evento), non può – questa religione che contempla addirittura il Natale del Figlio di Dio – non può, dicevo, non inchinarsi dinanzi ad ogni testimonianza di amore e abnegazione. Ma la fragilità è connessa alla nostra natura. Così nella cultura elaborata, non raramente si registra la perniciosa tendenza a svuotare questa parola del suo contenuto primordiale di crogiuolo discriminante il bene dal male, e farla così slittare a sinonimo di individualismo sofisticato. E può diventare un alibi alla propria ostinazione quando la caparbia indisponibilità alla correzione di sé viene giustificata con la fedeltà alla voce interiore. Una contraffazione che non di rado scambia l’ossequio vitale alla verità con l’uscita dai confini dell’obbedienza ecclesiale. Così come, nel linguaggio comune, è spesso un termine superficialmente svilito per spiegare situazioni di comodo, di fraintendimento, di disimpegno nei confronti di sé, degli altri, di Dio. Nell’un caso come nell’altro, è una equivocità in qualche modo connessa alla corruttela a cui è sottoposto in questa stagione l’ethos personale e pubblico. Parole importanti, riguardo a questi fenomeni, sono state spese a suo tempo da Giovanni Paolo II nell’enciclica Veritatis splendor (1993), dove «indicò con forza profetica nella grande tradizione razionale dell’ethos cristiano le basi essenziali e permanenti dell’agire morale. Questo testo oggi deve essere messo nuovamente al centro» (Benedetto XVI, Discorso alla Curia romana per gli Auguri di Natale, 20 dicembre 2010). Con analogo acume, il suo Successore annota che secondo molti oggi «non esisterebbero né il male in sé, né il bene in sé. Esisterebbe soltanto “un meglio di” o “un peggio di”. Niente sarebbe in se stesso bene o male. Tutto dipenderebbe dalle circostanze e dal fine inteso. La morale viene sostituita da un calcolo delle conseguenze e con ciò cessa di esistere» (ib).
Come non rilevare, inoltre, la foga con cui si tende a confondere l’assenza di costrizioni e il comportarsi secondo i dettami della coscienza? Oppure a sovrapporre l’interesse politico, in sé non negativo se sorvegliato e tenuto nei giusti confini, con la spiegazione dell’esigenza generale? Sappiamo che la Religione aiuta a distinguere fra un concetto e l’altro, ma essa sembra essere scarsamente considerata dalla coscienza moderna. Vediamo però che il deperimento a cui viene sottopone il senso religioso produce inevitabilmente smarrimento etico. Gioverà tuttavia una segnalazione. E cioè che queste derive sono tipiche delle età di passaggio. Scriveva Newman nella seconda metà dell’800: «Al giorno d’oggi, per una buona parte della gente, il diritto e la libertà di coscienza consistono proprio nello sbarazzarsi della coscienza, nell’ignorare il Legislatore e Giudice, nell’essere indipendenti da obblighi che non si vedono. […] La coscienza è una severa consigliera, ma in questo secolo è stata rimpiazzata da una sua contraffazione, di cui i diciotto secoli passati non avevano mai sentito parlare o dalla quale, se ne avessero sentito, non si sarebbero mai lasciati ingannare: è il diritto ad agire a proprio piacimento» (Lettera al Duca di Norfolk, Milano 1999). Ora, a parte il rilievo già avanzato in altra occasione (cfr. Prolusione al Consiglio Permanente della Cei, 26 gennaio 2011), e cioè che la stagione in cui Newman scriveva sembra essersi d’incanto prolungata fino ad oggi, conviene farsi aiutare proprio dal nuovo Beato inglese, a cui il nostro Papa si sente così vicino, così da imparare a individuare nello stravolgimento del concetto di coscienza la causa di tanti equivoci nei quali navighiamo. Forse che non è vero che l’origine di molte scelte sbagliate sta nello scambiare l’opzione di coscienza con la pretesa di essere padroni ad agire come ci pare? Oppure com’è, in quel momento, più conveniente e redditizio? Troppe volte, nella cultura come nella vita, si confonde il concetto di coscienza, ossia la capacità della persona di riconoscere la verità e la decisione di incamminarsi in essa, con l’ultima perentorietà dell’istanza soggettiva (cfr anche Benedetto XVI, Discorso alla Questura di Roma, 21 gennaio 2011). In pratica, è lo stordimento attorno al falso concetto di autonomia ciò che fa entrare in profonda confusione la cultura odierna, quella secondo cui la persona si pensa tanto più felice quanto più si sente prossima a fare ciò che vuole.
Ora, per ovviare a queste degenerazioni, proviamo a identificare alcune linee di lavoro che inducano il credente a sentire la responsabilità verso la coscienza, e a sentirla – se possibile – anche per chi non si pone il problema. La persona è unità molteplice, e tu
tta intera è coinvolta nel compito di pensare e agire in coscienza: tutti gli elementi, dunque, devono svilupparsi e armonizzarsi tra di loro: «È in pericolo di fatto il futuro del mondo, a meno che non vengano suscitati uomini più saggi» (GS 15).
1°. Anzitutto, tenere vivo nella cultura e nel costume odierni il concetto vero di coscienza quale «nucleo più segreto e sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria» (GS 16). Si può dire di più e meglio del Concilio? «Nucleo» più recondito e sacro, anzi «sacrario» inaccessibile, dove la persona si trincera per difendersi da pervasive interferenze, affermando in tal modo il connotato originalissimo di sé, dotata infatti del diritto e della responsabilità di guidare se stessa. Non stupirà allora l’«elogio della coscienza» che Benedetto XVI ha fatto nel suo recente viaggio in Croazia. La coscienza ha bisogno di essere continuamente purificata; essa peraltro ha pretese di lealtà e prudenza, nella consapevolezza dei possibili abusi che possono verificarsi circa i grandi valori, quando la si chiama in causa troppo in fretta. C’è un travaglio precedente, per così dire, fatto di studio e di confronto, che è sanamente propedeutico all’orientamento e alla decisione da prendere. Forse si dà poca importanza oggi a questa fase di necessaria chiarificazione, di sgombero delle macerie e pulizia del campo, al fine di avvicinarsi il più possibile alle strutture del reale, liberandosi via via dalle rappresentazioni soggettive. Vi è una ragione dell’essere che è più forte e più resistente di ogni costruzione umana. Riconoscere questo reale in sé, e piegarsi riconoscenti ad esso, è l’atto più morale che noi possiamo compiere.
2°. Sperimentare dunque la coscienza, per imparare a scegliere sempre il bene concreto, tenendo presente che il bene dell’uomo coincide con la sua strutturale apertura al futuro. Nell’impianto dell’essere ci sono pilastri irrinunciabili o imprescindibili. Ci sono principi che non sono negoziabili, dove l’espressione negativa non sta a dire che non se ne possa discutere, anzi; significa piuttosto che, per loro natura, essi emergono con evidenza propria dalla realtà, infrangibili e intrattenibili, salvo che non si eserciti la violenza. Si tratta allora di riconoscerli nelle mille, diverse e cangianti situazioni, identificarli nella circostanza data, farli luccicare nella loro intrinseca plausibilità. La vita umana dal suo primo istante alla morte, la libertà di crescere e maturare, il matrimonio tra l’ uomo e la donna, sono beni fondamentali e fondativi; sono beni senza dei quali non ce ne potranno essere altri, come il lavoro, l’inclusione, la sicurezza, l’ambiente, la pace.… Le necessarie mediazioni che la politica richiede non potranno mai infirmare i beni primari, né indebolirli o contraddirli, né sottrarre loro l’energia che apre al futuro. Vanno fatti costantemente salvi in una dinamica organica che ne svelerà l’intrinseca e gerarchica connessione.
3°. Educare e formare la coscienza. Essa infatti può farsi debole e inferma, può essere deformata a tal punto da esprimersi a stento o in modo distorto. Il silenzio della coscienza, per incuria e abbandono, può far scambiare l’istintività per spontaneità, il velleitarismo per pertinenza, l’ingiustizia per giustizia, la morte per vita, l’egoismo per amore. E’ il retaggio del peccato originale e dei peccati personali: retaggio che appesantisce e annebbia la luce della coscienza come eco di quella Voce che crea e salva, guida e libera con la sua Parola. Incisivo quanto leggiamo in Gesù di Nazaret circa il “malum mundi”: “Filosofi moderni hanno illustrato questa situazione storica dell’uomo in molteplici modi; per esempio Martin Heidegger, quando parla dell’essere condizionati dal ‘sì’ impersonale, dell’esistere nella ‘non-autenticità’. In maniera molto diversa appare la stessa problematica, quando Karl marx illustra l’alienazione dell’uomo. Con questo, la filosofi descrive in fondo precisamente ciò che la fede chiama ‘peccato originale’” (Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, vol. II, pag. 117).
Che senso ha quel criterio molta in voga secondo il quale ognuno può sempre fare ciò che la coscienza gli consente? E se un individuo non ha coscienza può forse sentirsi autorizzato a fare ciò che vuole? Occorre in altre parole determinare in sé qualità permanenti (le virtù) che mettono la persona in sintonia con il bene concreto, sapendo resistere alle pulsioni e ai tiranneggiamenti. Per giudicare e agire bene bisogna creare in sé una iniziale e globale disponibilità interiore. Infatti «il giudizio sulle scelte concrete – scrive padre Giordano Muraro – risente della interiore situazione della persona». Ecco perché il Concilio avverte che “la coscienza diventa cieca in seguito alla abitudine del peccato”, e precisa che nel credente “quanto più prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi sociali si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità” (Gaudium et spes, 16).
4°. Esercitare la coscienza nel discernimento ecclesiale. Per riuscire in una scelta concretamente buona serve il discernimento, che non è mai un’iniziativa solitaria perché include la comunità ecclesiale, nella quale il discrimine viene dalla Parola di Dio e dal Magistero. Abbiamo bisogno dell’una e dell’altro perché la coscienza sia “convenientemente formata” (Gaudium et spes, 43): “il Magistero della Chiesa – recita la Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede – non vuole esercitare un potere politico né eliminare la libertà di opinione dei cattolici su questioni contingenti. Esso intende invece – come è suo proprio compito – istruire e illuminare la coscienza dei fedeli, soprattutto di quanti si dedicano all’impegno nella vita politica, perché il loro agire sia sempre al servizio della promozione integrale della persona e del bene comune” (Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, n. 6). Ha scritto un giorno il Card. Joseph Ratzinger: «Il credente non insegna ciò che ha scoperto da se stesso, ma testimonia la vivente saggezza della fede, nella quale la saggezza primitiva dell’umanità viene purificata, mantenuta, approfondita»: questo è il lavoro della coscienza. Si potrebbe dire con il Papa che questa attitudine o proprietà è la coscienza. Chi non conosce il pregiudizio secondo il quale il Magistero sarebbe inattendibile perché poco trasparente e obsoleto rispetto all’interpretazione della realtà? Nel momento stesso tuttavia in cui si debella dalla coscienza il Magistero, senza rendersene conto già lo si sostituisce con un surrogato. L’apostolo Paolo esorta i credenti in Cristo a raggiungere l’età adulta, per non restare fanciulli in balia delle onde (cfr Ef 4,13-14). Conviene però vigilare sull’espressione «cristiani adulti», perché non succeda anche qui un più o meno volontario slittamento semantico, come se l’espressione implicasse l’adozione di atteggiamenti di autosufficienza e di autonomia dal Magistero della Chiesa. Diceva il Papa, il 29 giugno 2009, proprio a riguardo di questa espressione: l’esprimersi contro il Magistero talora «lo si presenta come coraggio (…). In realtà, non ci vuole per questo del coraggio, giacché si può essere sicuri del pubblico applauso». E continuava: «Coraggio ci vuole piuttosto per aderire alla fede della Chiesa anche se questa contraddice lo schema del mondo. È questo conformismo della fede che Paolo chiama una fede adulta».
Cari amici, con questa esortazione ad un coraggioso e sereno anticonformismo, che privilegia la coscienza della verità e l’obbedienza ad essa, alla soggezione mondana, vi consegno questa riflessione perché possa accompagnarvi e –
se non chiedo troppo − ne sia fatto argomento di studio e di confronto all’interno delle vostre aggregazioni. Le realtà che aderiscono a Retinopera hanno uno specifico da apportare al movimento che – grazie a Dio – ha preso il largo e che deve portare i cattolici del nostro Paese a spendersi non per smania, ma «in scienza e coscienza», nei vari ambiti e livelli della vita sociale e politica. Vogliate accoglierla con la stessa simpatia e larghezza di cuore con cui è stata offerta e preparata.
Grazie anche per la vostra presenza intelligente e operosa là dove vivete. Ci auguriamo che cresca e maturi un soggetto interiormente coeso e diffuso che – come fermento capillare – stimoli ad una formazione dottrinale sempre più documentata e, al contempo, provochi alla lettura cristiana della realtà. Non dimentichiamo che “la fede in Gesù Cristo che ha definito se stesso ‘via, verità e vita’ (Gv 14, 16) chiede ai cristiani lo sforzo per inoltrarsi con maggior impegno nella costruzione di una cultura che, ispirata al Vangelo, riproponga il patrimonio di valori e contenuti della Tradizione cattolica (…) Del resto lo spessore culturale raggiunto e la matura esperienza di impegno politico che i cattolici in diversi paesi hanno saputo sviluppare (…) non possono porli in nessun complesso di inferiorità nei confronti di altre proposte che la storia recente ha mostrato deboli e radicalmente fallimentari. E’ insufficiente e riduttivo pensare che l’impegno sociale dei cattolici possa limitarsi ad una semplice trasformazione delle strutture, perché se alla base non vi è una cultura in grado di accogliere, giustificare e progettare le istanze che derivano dalla fede e dalla morale, le trasformazioni poggeranno sempre su fragili fondamenta” (Nota cit. n. 7). Forse risentendo questa parziale citazione, potrà spuntare la nota domanda se i cattolici vogliano imporre agli altri la propria fede; ma sull’argomento, se qualcuno fosse interessato, mi permetto di rimandare a quanto ho avuto modo di dire recentemente nel mio intervento a Todi (17.10.2011).
Vi ringrazio e vi auguro buon lavoro.