Il concetto di "giusta ermeneutica"

Riflessioni sul Concilio Vaticano II / 2

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di Carmine Tabarro 

ROMA, venerdì, 23 novembre 2012 (ZENIT.org) – Benedetto XVI, fin dall’inizio del suo pontificato, ha sentito il bisogno di raccomandare a tutti di applicare il principio della “giusta ermeneutica” dei testi conciliari. Su questa affermazione, alcuni teologi e pastori hanno mosso diverse eccezioni. Questi chiedono al Papa di chiarire il significato e la portata dell’espressione: “giusta ermeneutica”, perché essa, se male interpretata, potrebbe anche nascondere qualche perplessità o addirittura qualche riserva nei confronti di quanto sta scritto.

A mio avviso si tratta di una precisazione non del tutto giustificata. Difatti i testi conciliari vanno certamente letti in continuità con il magistero conciliare precedente, come pure in armonia con il magistero pontificio ufficiale: questo è un principio consolidato e indiscutibile per chi voglia dirsi ed essere “cattolico”. In effetti non si fa fatica a cogliere nei testi conciliari una sorta di telos che emana da quella koinonia per la quale, come si legge in Lumen gentium 13, «chi sta a Roma sa che gli indi sono sue membra». 

Inoltre e’ del tutto pacifico che Benedetto XVI (che ha partecipato al Vaticano II), intenda come “giusta ermeneutica”, il corretto modo di interpretare i testi conciliari; escludendo sia  una metrica  figlia di una sola cultura o di una sola scuola teologica datata, ma una metrica che abbia  i caratteri dell’universalità che si addicono alla pienezza “Catholica” incarnata nell’oggi.

Non posso negare che nella Chiesa ci sono istanze pastorali che, come è stato rilevato da eminenti pastori, richiedono nientemeno che una “rilettura” di certe affermazioni conciliari; una rilettura fatta nell’ambito di quella collegialità episcopale che il Vaticano II, non senza grandi difficoltà e resistenze, ha voluto definire come verità di fede.

Ancor più i testi conciliari vanno letti anche alla luce delle finalità che Giovanni XXIII ha autorevolmente indicato ai padri conciliari: finalità che solo pochi padri hanno disatteso, ma che non tutti hanno dimostrato di aver accolto come “lampada per illuminare i passi” e di orientare il loro cammino.

Li ha indicati a chiare lettere Giovanni XXIII e li elenca in modo ancor più chiaro la Sacrosanctum Concilium, 1: «Il sacro concilio, proponendosi di far crescere ogni giorno più la vita cristiana tra i fedeli, di meglio adattare alle esigenze del nostro tempo quelle istituzioni che sono soggette a mutamento, di favorire tutto ciò che può contribuire all’unione di tutti i credenti in Cristo, e di rinvigorire tutto ciò che giova a chiamare tutti nel seno della Chiesa, ritiene suo dovere interessarsi in modo speciale anche della riforma e dell’incremento della liturgia».

Pertanto se da un lato, è giusto interrogarci sui pericoli di false ermeneutiche, minoritarie, ma presenti nel popolo di Dio, sicuramente queste non sono da rivolgere al pensiero di Benedetto XVI. A mio avviso Benedetto XVI ci pone la domanda fondamentale: se e fino a qual punto stiamo cercando di dare concretezza storica alle finalità che hanno dato origine e vita al Concilio.

In tal senso i testi conciliari vanno interpretati anche alla luce di quel bisogno di rinnovamento ( teologico, liturgico, biblico, catechetico) che era presente nella Chiesa cattolica in quegli anni. E’ importante ricordare il ruolo profetico quei “movimenti” che erano iniziati da tempo e che avevano lasciato segni profondi in non pochi strati della vita della Chiesa. In particolare, alludo al movimento liturgico, che alcuni pionieri hanno lodevolmente e coraggiosamente avviato e favorito.

Un ruolo profetico è stato svolto anche dal movimento biblico che ha trovato validi sostenitori in diverse parti del mondo. Altro movimento profetico riguarda il movimento ecumenico che, sorto in prima battuta tra le Chiese protestanti, finalmente ha trovato una risposta timida ma convinta anche tra le comunità cattoliche. Non va neppure dimenticato il movimento missionario, il cui merito consiste soprattutto nell’aver individuato e proposto un nuovo metodo per l’evangelizzazione delle culture, ovvero per l’inculturazione del Vangelo.

Come ho detto in precedenza, gli storici hanno dimostrato come questo bisogno di rinnovamento, al quale Giovanni XXIII ha dato voce ufficiale e autorevole, emerge con estrema evidenza anche dai non pochi diari che alcuni teologi ed esperti del Concilio Vaticano II ci hanno lasciato: anche questa è preziosa eredità che non sarebbe onesto dimenticare: alludo ai diari dei grandi padri del Concilio: il padre domenicano Congar, del padre gesuita De Lubac, del vescovo Helder Camara, di R. Laurentin, di M.D. Chenu, di G. Cottier, dell’italiano Colombo e di altri ancora. Ricordo che C. Colombo,  era ha detta di molti testimoni, “il teologo” e il consigliere di papa Paolo VI.

Nella lettura delle testimonianze di questi padri ne ho ricavato tanta luce, soprattutto per la convinzione, che via via è andata maturando in me, che lo Spirito Santo si è avvalso anche di teologi ed esperti per aprire la mente di non pochi vescovi, la maggior parte dei quali – lo dico con rispetto ma anche per amore della verità – è arrivata al Concilio impreparata, per mettere a fuoco talune problematiche teologiche particolarmente difficili e complesse, per infondere fiducia nei momenti difficili dell’iter conciliare, per offrire i propri servizi alla stesura dei documenti.

Non sarebbe stato possibile condurre il Concilio sulle vie dello Spirito Santo e che ci sono diventate familiari senza il supporto orale e scritto di questi grandi teologi, primo tra i quali va indicato Gérard Philips. Ma soprattutto i testi conciliari hanno trovato una ermeneutica sicura e autorevole nella lettera enciclica Ecclesiam Suam di Paolo VI, con la sua triplice ed eloquente articolazione: coscienza, riforma e dialogo. Tutto un programma che attende ancora di essere approfondito e realizzato.

Il Concilio Vaticano II: «La bussola del nostro cammino». Questa profetica espressione pronunciata da Giovanni Paolo II  ha riscosso un grande consenso nella comunita’  ecclesiale. Benedetto XVI l’ha ripresa e ampliata affermando che il Concilio Vaticano II è stato ed è «una grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel secolo XX». La funzione di una bussola serve a orientare e rendere sicuro il cammino e quindi a correggere la rotta se essa si rivela sbagliata.

Personalmente ritengo che di questa bussola la nostra Chiesa abbia oggi bisogno. E’ vero che lo Spirito Santo agisce nella storia, ma richiede e aspetta da ogni autentico figlio/a della Chiesa, una risposta responsabile e adeguata alle sue reali possibilità perché il dono accolto e coltivato produca tutti i frutti desiderati.

Fatta questa doverosa premessa, vorrei dire gli ambiti dove la bussola è più urgente. Anzitutto nell’ambito liturgico: si avverte infatti che a una riforma liturgica dei testi e dei riti pur doverosa non corrisponde ancora un’autentica spiritualità liturgica, centrata e ispirata al mistero pasquale. Se rimaniamo fermi a questo punto del nostro cammino, dovremo riconoscere di aver ottenuto un parziale fallimento dello scopo del rinnovamento della vita cristiana voluto da papa Giovanni.

A mio avviso, dovremmo curare maggiormente la spiritualità liturgica che è capace di rinnovare non solo la partecipazione dei fedeli laici e dei pastori alle celebrazioni, ma anche e ancor prima la nostra vita. Maggiore riflessione richiede il tema della riferimento alla collegialità episcopale (l’unica verità di fede definita dal Vaticano II): si avverte infatti un profondo e sincero bisogno di armonizzare il ministero petrino con quello episcopale, come del resto avevano già previsto il beato John Henry Newmann o anche il beato Antonio Rosmini.

Un’altro tema riguarda la collegialità episcopale: gia’ proposto dal Concilio Vaticano I che aveva auspicato ma non aveva potuto definire
, quanto piuttosto sul suo esercizio, che dovrebbe suscitare meno paure e più fiducia, che potrebbe aprire nuove strade che sarebbe in grado di dare un respiro nuovo alla nostra amata Chiesa, che si dice e vuole essere “cattolica”.

Queste nuove strade potrebbero portare a  grandi progressi nel cammino ecumenico, a tutto beneficio della causa dell’unità dei cristiani. Mi permetto di ricordare che Giovanni Paolo II, nella sua enciclica Ut unum sint, aveva chiesto di essere consigliato su come esercitare il suo primato. Mi consta pure che da diverse parti sono state inviate proposte e suggerimenti. Non sarebbe opportuno far conoscere e discutere su queste proposte? Sarebbe anche questo un modo per dare vita alla collegialità episcopale.

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ZENIT Staff

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