Sul piano strutturale, nell’ultima parte del secolo scorso, la moneta e le attività finanziarie a livello globale sono cresciute molto più rapidamente della produzione di beni e di servizi. In tale contesto, la qualità del credito ha teso a diminuire sino ad esporre gli istituti di credito ad un rischio maggiore di quello ragionevolmente sostenibile. Basti guardare alle sorti di grandi e piccoli istituti di credito nel contesto delle crisi che si sono manifestate negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso e infine nella crisi del 2008.
Sempre nell’ultima parte del secolo scorso, si è sviluppata la tendenza a definire gli orientamenti strategici della politica economica e finanziaria all’interno di club e di gruppi più o meno estesi di Paesi più sviluppati. Pur non negando gli aspetti positivi di questo approccio, non si può non notare che esso non sembra rispettare pienamente il principio rappresentativo, in particolare dei Paesi meno sviluppati o emergenti.
La necessità di tener conto della voce di un maggiore numero di Paesi ha, ad esempio, indotto l’allargamento dei suddetti gruppi, passando così dal g7 al g20. Questa è stata un’evoluzione positiva, in quanto ha consentito di coinvolgere, negli orientamenti all’economia e alla finanza globale, la responsabilità di Paesi con più elevata popolazione, in via di sviluppo ed emergenti.
Nell’ambito del g20 possono pertanto maturare indirizzi concreti che, opportunamente elaborati nelle appropriate sedi tecniche, potranno orientare gli organi competenti a livello nazionale e regionale al consolidamento delle istituzioni esistenti e alla creazione di nuove istituzioni con appropriati ed efficaci strumenti a livello internazionale.
Gli stessi leader del g20, nella Dichiarazione finale di Pittsburgh del 2009, affermano del resto come «la crisi economica dimostra l’importanza di avviare una nuova era dell’economia globale fondata sulla responsabilità». Per fare fronte alla crisi e aprire una nuova era «della responsabilità», oltre alle misure di tipo tecnico e di breve periodo, i leader avanzano la proposta di una «riforma dell’architettura globale per fare fronte alle esigenze del 21° secolo»; e quindi quella di «un quadro che consenta di definire le politiche e le misure comuni per generare uno sviluppo globale solido, sostenibile e bilanciato».20
Occorre quindi avviare un processo di profonda riflessione e di riforme, percorrendo vie creative e realistiche, tendenti a valorizzare gli aspetti positivi delle istituzioni e dei fora già esistenti.
Un’attenzione specifica andrebbe riservata alla riforma del sistema monetario internazionale e, in particolare, all’impegno per dar vita a qualche forma di controllo monetario globale, peraltro già implicita negli Statuti del Fondo Monetario Internazionale. È chiaro che, in qualche misura, questo equivale a mettere in discussione i sistemi dei cambi esistenti, per trovare modi efficaci di coordinamento e supervisione. È un processo che deve coinvolgere anche i Paesi emergenti e in via di sviluppo nel definire le tappe di un adattamento graduale degli strumenti esistenti.
Sullo sfondo si delinea, in prospettiva, l’esigenza di un organismo che svolga le funzioni di una sorta di «Banca centrale mondiale» che regoli il flusso e il sistema degli scambi monetari, alla stregua delle Banche centrali nazionali. Occorre riscoprire la logica di fondo, di pace, coordinamento e prosperità comune, che portarono agli Accordi di Bretton Woods, per fornire adeguate risposte alle questioni attuali. A livello regionale tale processo potrebbe essere praticato con la valorizzazione delle istituzioni esistenti, come ad esempio la Banca Centrale Europea. Ciò richiederebbe, tuttavia, non solo una riflessione sul piano economico e finanziario, ma anche e prima di tutto, sul piano politico, in vista della costituzione di istituzioni pubbliche corrispettive che garantiscano l’unità e la coerenza delle decisioni comuni.
Queste misure dovrebbero essere concepite come alcuni dei primi passi nella prospettiva di una Autorità pubblica a competenza universale; come una prima tappa di un più lungo sforzo della comunità mondiale di orientare le sue istituzioni alla realizzazione del bene comune. Altre tappe dovranno seguire, tenendo conto che le dinamiche che conosciamo possono accentuarsi, ma anche accompagnarsi a cambiamenti che oggi sarebbe vano tentare di prevedere.
In tale processo, occorre, recuperare il primato dello spirituale e dell’etica e, con essi, il primato della politica — responsabile del bene comune — sull’economia e la finanza. Occorre ricondurre queste ultime entro i confini della loro reale vocazione e della loro funzione, compresa quella sociale, in considerazione delle loro evidenti responsabilità nei confronti della società, per dare vita a mercati ed istituzioni finanziarie che siano effettivamente a servizio della persona, che siano capaci, cioè, di rispondere alle esigenze del bene comune e della fratellanza universale, trascendendo ogni forma di piatto economicismo e di mercantilismo performativo.
Sulla base di un tale approccio di tipo etico, appare, quindi, opportuno riflettere, ad esempio:
su misure di tassazione delle transazioni finanziarie, mediante aliquote eque, ma modulate con oneri proporzionati alla complessità delle operazioni, soprattutto di quelle che si effettuano nel mercato «secondario». Una tale tassazione sarebbe molto utile per promuovere lo sviluppo globale e sostenibile secondo principi di giustizia sociale e della solidarietà; e potrebbe contribuire alla costituzione di una riserva mondiale, per sostenere le economie dei Paesi colpiti dalle crisi, nonché il risanamento del loro sistema monetario e finanziario;
su forme di ricapitalizzazione delle banche anche con fondi pubblici condizionando il sostegno a comportamenti «virtuosi» e finalizzati a sviluppare l’economia reale;
sulla definizione dell’ambito dell’attività di credito ordinario e di Investment Banking. Tale distinzione consentirebbe una disciplina più efficace dei «mercati-ombra» privi di controlli e di limiti.
Un sano realismo richiederebbe il tempo necessario per costruire consensi ampi, ma l’orizzonte del bene comune universale è sempre presente con le sue esigenze ineludibili. È pertanto auspicabile che tutti coloro che, nelle Università e nei vari Istituti, sono chiamati a formare le classi dirigenti di domani si dedichino a prepararle alle loro responsabilità di discernere e di servire il bene pubblico globale in un mondo in costante cambiamento. È necessario colmare il divario presente tra formazione etica e preparazione tecnica, evidenziando in particolar modo l’ineludibile sinergia tra i due piani della praxis e della poièsis.
Lo stesso sforzo è richiesto a tutti coloro che sono in grado di illuminare l’opinione pubblica mondiale, per aiutarla ad affrontare questo mondo nuovo non più nell’angoscia ma nella speranza e nella solidarietà.
Conclusioni
Nelle incertezze attuali, in una società capace di mobilitare mezzi ingenti, ma la cui riflessione sul piano culturale e morale rimane inadeguata rispetto al loro utilizzo in ordine al conseguimento di fini appropriati, siamo invitati a non arrenderci e a costruire soprattutto un futuro di senso per le generazioni a venire. Non bisogna temere di proporre cose nuove, anche se possono destabilizzare equilibri di forze preesistenti che dominano sui più deboli. Esse sono un seme gettato nella terra, che germoglierà e non tarderà a portare i suoi frutti.
Come ha esortato Benedetto XVI, sono indispensabili persone ed operatori a tutti i livelli — sociale, politico, economico, professionale —, mossi dal coraggio di servire e promuovere il bene comune mediante una vita buona.21 Solo loro riusciranno a vivere e a vedere oltre le apparenze delle cose, percependo il d
ivario tra il reale esistente ed il possibile mai sperimentato.
Paolo VI ha sottolineato la forza rivoluzionaria dell’«immaginazione prospettica», capace di percepire nel presente le possibilità in esso inscritte, e di orientare gli uomini verso un futuro nuovo.22 Liberando l’immaginazione, l’uomo libera la sua esistenza. Mediante un impegno di immaginazione comunitaria</em> è possibile trasformare non solo le istituzioni ma anche gli stili di vita, e suscitare un avvenire migliore per tutti i popoli.
Gli Stati moderni, nel tempo, sono divenuti insiemi strutturati, concentrando la sovranità all’interno del proprio territorio. Ma le condizioni sociali, culturali e politiche sono progressivamente mutate. È cresciuta la loro interdipendenza — sicché è divenuto naturale pensare ad una comunità internazionale integrata e retta sempre più da un ordinamento condiviso —, ma non è venuta meno una forma deteriore di nazionalismo, secondo cui lo Stato ritiene di poter conseguire in maniera autarchica il bene dei suoi cittadini.
Oggi tutto ciò appare surreale e anacronistico. Oggi tutte le nazioni, piccole o grandi, assieme ai loro Governi, sono chiamate a superare quello «stato di natura» che vede gli Stati in perenne lotta tra loro. Nonostante alcuni suoi aspetti negativi, la globalizzazione sta unificando maggiormente i popoli, sollecitandoli a muoversi verso un nuovo «stato di diritto» a livello sopranazionale, sostenuto da una collaborazione più intensa e feconda. Con una dinamica analoga a quella che in passato ha messo fine alla lotta «anarchica» tra clan e regni rivali, in ordine alla costituzione di Stati nazionali, l’umanità deve oggi impegnarsi nella transizione da una situazione di lotte arcaiche tra entità nazionali, a un nuovo modello di società internazionale più coesa, poliarchica, rispettosa delle identità di ciascun popolo, entro la molteplice ricchezza di un’unica umanità. Un tale passaggio, peraltro già timidamente in corso, assicurerebbe ai cittadini di tutti i Paesi — qualunque ne sia la dimensione o la forza — pace e sicurezza, sviluppo, mercati liberi, stabili e trasparenti. «Come all’interno dei singoli Stati […] il sistema della vendetta privata e della rappresaglia è stato sostituito dall’impero della legge» — avverte Giovanni Paolo II — «così è ora urgente che un simile progresso abbia luogo nella Comunità internazionale».23
I tempi per concepire istituzioni con competenza universale arrivano quando sono in gioco beni vitali e condivisi dall’intera famiglia umana, che i singoli Stati non sono in grado di promuovere e proteggere da soli.
Esistono, quindi, le condizioni per il definitivo superamento di un ordine internazionale «westphaliano», nel quale gli Stati sentono l’esigenza della cooperazione, ma non colgono l’opportunità di un’integrazione delle rispettive sovranità per il bene comune dei popoli.
È compito delle generazioni presenti riconoscere e accettare consapevolmente questa nuova dinamica mondiale verso la realizzazione di un bene comune universale. Certo, questa trasformazione si farà al prezzo di un trasferimento graduale ed equilibrato di una parte delle attribuzioni nazionali ad un’Autorità mondiale e alle Autorità regionali, ma questo è necessario in un momento in cui il dinamismo della società umana e dell’economia e il progresso della tecnologia trascendono le frontiere, che nel mondo globalizzato sono di fatto già erose.
La concezione di una nuova società, la costruzione di nuove istituzioni dalla vocazione e competenza universali, sono una prerogativa e un dovere per tutti, senza distinzione alcuna. È in gioco il bene comune dell’umanità e il futuro stesso.
In tale contesto, per ogni cristiano c’è una speciale chiamata dello Spirito ad impegnarsi con decisione e generosità, perché le molteplici dinamiche in atto si volgano verso prospettive di fraternità e di bene comune. Si aprono immensi cantieri di lavoro per lo sviluppo integrale dei popoli e di ogni persona. Come affermano i Padri del Concilio Vaticano II, si tratta di una missione al tempo stesso sociale e spirituale, che, «nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l’umana società, è di grande importanza per il regno di Dio».24
In un mondo in via di rapida globalizzazione, il riferimento ad un’Autorità mondiale diviene l’unico orizzonte compatibile con le nuove realtà del nostro tempo e con i bisogni della specie umana. Non va, però, dimenticato che questo passaggio, data la natura ferita degli uomini, non avviene senza angosce e senza sofferenze.
La Bibbia, con il racconto della Torre di Babele (Genesi 11, 1-9) avverte come la «diversità» dei popoli possa trasformarsi in veicolo di egoismo e strumento di divisione. Nell’umanità è ben presente il rischio che i popoli finiscano per non capirsi più e che le diversità culturali siano motivo di contrapposizioni insanabili. L’immagine della Torre di Babele ci avverte anche che bisogna guardarsi da una «unità» solo di facciata, nella quale non cessano egoismi e divisioni, poiché non sono stabili le fondamenta della società. In entrambi i casi, Babele è l’immagine di ciò che i popoli e gli individui possono divenire, quando non riconoscono la loro intrinseca dignità trascendente e la loro fraternità.
Lo spirito di Babele è l’antitesi dello Spirito di Pentecoste (Atti 2, 1-12), del disegno di Dio per tutta l’umanità, vale a dire l’unità nella diversità. Solo uno spirito di concordia, che superi divisioni e conflitti, permetterà all’umanità di essere autenticamente un’unica famiglia, fino a concepire un nuovo mondo con la costituzione di un’Autorità pubblica mondiale, al servizio del bene comune.
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1 Paolo VI, Lettera enciclica Populorum progressio, n. 13.
2 Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, n. 21.
3 Leaders’ Statement, The Pittsburgh Summit, September 24-25, 2009; Annex, 1.
4 Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, n. 34.
5 Lettera enciclica Populorum progressio, nn. 76 ss.
6 Cfr. International Monetary Fund, Annual Report 2007, pp. 8 ss.
7 Cfr. Lettera enciclica Caritas in veritate, n. 45.
8 Ib., n. 77.
9 Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Centesimus annus, n. 70.
10 Ib., n. 40.
11 Giovanni XXIII, Lettera enciclica Pacem in terris, n. 70.
12 Cfr. ib. nn. 71-74.
13 Cfr. Lettera enciclica Caritas in veritate, n. 67.
14 Ib.
15 Cfr. ib.
16 Cfr. ib., nn. 57 e 67.
17 Cfr. ib., n. 57.
18 Ib.
19 Cfr. Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes,</em> n. 70.
20 Leaders’ Statement, The Pittsburgh Summit, September 24-25, 2009; cfr. Annex, paragrafo 1; G-20 Framework for Strong, Sustainable, and Balanced Growth, §1; Leaders’ Statement, nn. 18, 13.
21 Cfr. Lettera enciclica Caritas in veritate, n. 71.
22 Paolo VI, Lettera apostolica Octogesima adveniens, n. 37.
23 Lettera enciclica Centesimus annus, n. 52.
24 Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, n. 39.
246Q08A1 25/10/2011