ROMA, mercoledì, 15 giugno 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo di mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, apparso su Il Sole 24 Ore di domenica 12 giugno.
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Che il nostro Paese stia vivendo una profonda crisi morale è sotto gli occhi di tutti. Al di là di ogni giudizio di parte, le recenti elezioni amministrative hanno mostrato una diffusa esigenza di cambiamento, soprattutto sul piano dell’etica pubblica e degli stili che devono caratterizzarla. Quale apporto può dare a questi processi una fede pensata? Che cosa i cattolici e la teologia che li ispira possono offrire all’Italia per uscire dal tunnel? Anche se la domanda sulla teologia può apparire riservata agli addetti ai lavori, ritengo che meriti di essere considerata da tutti per le conseguenze che ne derivano nella prassi. Mi limito a segnalare tre urgenze. La prima è quella di una teologia più fedele alla terra, capace di parlare alla vita degli uomini, mantenendo alta la tensione fra il “già” e il “non ancora” propria della fede in Cristo, venuto fra noi e atteso per l’ultimo giorno. La crisi delle ideologie ha mostrato come ogni identificazione mondana del Regno di Dio corra il rischio di falsare questa tensione, facendo della fede cristiana un’illusoria “estasi del compimento”. Al contrario, la fedeltà alla tensione fra il “già” e il “non ancora” motiva il rifiuto di ogni confusione indebita, che tenda a identificare appartenenza ecclesiale e militanza politica o ideologica, e allo stesso tempo fonda per la Chiesa l’esigenza di porsi come coscienza critica della prassi in nome della permanente ulteriorità del mondo che deve venire. Lungi dall’essere funzionale allo “status quo”, il pensiero della fede è chiamato alla vigilanza critica, alla testimonianza inquieta delle promesse di Dio vissuta nella fedeltà al presente. Prendere coscienza di questa condizione significa sviluppare una ricerca teologica impegnata nell’ascoltare le domande del tempo per illuminarle alla luce del Dio crocifisso e risorto, caricandole dell’attenzione ai più deboli e poveri cui Lui si è fatto vicino. Si riconosce qui l’esito della cosiddetta “svolta antropologica” che aveva caratterizzato la teologia cattolica nell’epoca del Vaticano II e che ha influenzato i processi d’inculturazione della fede nei contesti più diversi del pianeta, non escluso quello italiano.
Una seconda urgenza che mi sembra profilarsi è quella di una teologia più teologica, e cioè più fedele al cielo, che sappia volgere lo sguardo alle cose presenti nell’orizzonte dell’assoluto primato di Dio. Se l’ottimismo della ragione emancipata aveva esorcizzato il dolore e la morte, confinandoli nella condizione di semplice momento negativo del processo della vita, il pessimismo postmoderno, estendendo l’abbraccio del nulla a tutte le cose e intendendo la vita come caduta permanente nel vuoto, non emargina di meno la dimensione tragica dell’esistenza: la morte è ignorata, evasa, nascosta. La ripresa della questione del senso della vita e della storia esige l’atto coraggioso di “restituire” la morte e le domande che essa pone al pensiero. Per la coscienza cristiana questo ritorno alla morte costituisce lo stimolo a tornare a quella morte, dove solo si consumò la morte della morte: l’abbandono del Figlio sulla croce. Ricordare quella morte in cui si narra la storia della storia e la resurrezione ad essa seguita, vuol dire aprirsi alla vita, non soltanto a quella piena del mondo futuro, ma anche alla più profonda qualità dell’esistenza presente. La teologia in cerca del senso riscopre la centralità del Crocifisso, l’attrazione misteriosa che egli esercita sulle coscienze uscite dalle avventure dell’ideologia moderna. E questo esige un’attitudine di ascolto contemplativo e orante. Alla teologia si domanda di essere non meno, ma più teologica, più mistica e radicata nella contemplazione di Dio e nell’esperienza liturgica del mistero: un pensiero che parli di Dio e guardi la storia e il mondo nella Sua luce. La crisi in cui ci troviamo domanda ai credenti uno sguardo più verticale, più tuffato nel mistero divino, proprio perciò in grado di aiutare a superare i rischi di concentrazione del potere nelle mani del più forte, presenti nella rete del “villaggio globale”.
Infine, emerge il bisogno di una teologia che unisca queste due fedeltà - al mondo presente e al mondo che verrà -, ponendosi al servizio della ricerca di un nuovo consenso etico, e che sia pertanto eticamente responsabile al più alto livello. La crisi che la coscienza postmoderna sta attraversando si profila in modo peculiare come assenza di riferimenti capaci di motivare l’impegno morale. Il consenso intorno alle fondamentali evidenze etiche, che aveva nutrito gli ideali della formazione della coscienza europea e della nostra Carta costituzionale, in gran parte radicate nei valori della tradizione giudaico-cristiana, ha conosciuto una lenta erosione, che ha fatto posto a tutt’altro consenso organizzato intorno alla logica del maggior profitto. Il volto della crisi in atto potrebbe identificarsi nella tentazione sottile costituita dal dubbio che vivere onestamente sia inutile. Mai come adesso si richiede uno sforzo collettivo che ispiri la costruzione di un nuovo ordine mondiale e di nuove forme di convivenza civile, grazie a protagonisti nuovi, nutriti di forti motivazioni etiche e pronti a sacrificarsi per gli altri. La teologia cristiana non può chiamarsi fuori da questa urgenza di produrre un nuovo consenso etico: ciò esige che si coniughino efficacemente dogmatica ed etica, il “logos” e l’ethos”, la verità e il suo splendore nella storia. Teologi e pastori sono chiamati a una nuova collaborazione al servizio della Chiesa e della società: non si può ignorare il ruolo pubblico del cristianesimo, e occorre anzi reagire alla tendenza alla privatizzazione sempre più estesa del fatto religioso (come osserva ad esempio Jürgen Habermas in riferimento all’area tedesca e non solo). Una teologia che sia eticamente responsabile aiuterà i credenti a portare nell’impegno comune la ricchezza del loro patrimonio spirituale, la forza di una motivazione morale alta, sostenuta dall’esperienza della fede. Essi dovranno mostrare in maniera convincente che vivere rettamente è non solo giusto, ma anche necessario e utile alla crescita della casa comune, alla bellezza e dignità della vita di tutti. Solo così il pensiero della fede potrà contribuire alla ricostruzione morale del Paese. “Se vuoi costruire una nave - dice una frase attribuita ad Antoine de Saint-Exupéry - non radunare gli uomini per raccogliere il legno, distribuire i compiti e dare ordini, ma insegna loro la nostalgia del mare ampio e infinito”. Vivere e testimoniare sempre di nuovo questa nostalgia è forse il compito più alto chiesto ai cristiani nell’Italia di quest’inizio del terzo millennio.