Pietro Maso nell'intervista al settimanale "Chi"

Photo courtesy of "Chi" redaction (Mondadori)

Pietro Maso: "Ero il male. Ma Papa Francesco ha avuto compassione di me…"

L’uomo che assassinò i suoi genitori a Verona, dopo 22 anni di galera, racconta in esclusiva a “Chi” il perché di quel brutale gesto e della telefonata ricevuta dal Pontefice

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“Non c’è Santo senza passato, né peccatore senza futuro” diceva questa mattina Papa Francesco nella Messa a Santa Marta. Parole di speranza verso chi ha sbagliato, chi ha peccato o addirittura è arrivato a uccidere perché mosso da passioni impure. Come il biblico re Davide. O come Pietro Maso.

Quel Pietro Maso che sconvolse l’Italia il 17 aprile 1991, massacrando i suoi genitori Antonio e Rosa a Montecchia di Crosara, in provincia di Verona. Uno dei delitti più efferati della storia del nostro paese, il cui processo divenne un caso nazionale. Proprio oggi, sull’eco dell’omelia del Santo Padre, per una fortuita quanto provvidenziale coincidenza, il settimanale Chi ha anticipato alcuni stralci della lunga intervista-memoriale che l’uomo ha rilasciato in esclusiva e che verrà pubblicata in edicola domani 20 gennaio.

In essa, Maso, ora 45enne, ripercorre la sua vita, i 22 anni di carcere e la riscoperta della fede, e fa luce sul movente di quel brutale assassinio, compiuto con un tubo di ferro e ferocia inaudita con l’aiuto di tre complici. “Non fu per soldi come si era detto”, spiega, rivelando al grande pubblico anche una clamorosa notizia: la telefonata ricevuta nel 2013 dallo stesso Papa Francesco, a seguito di una lettera che gli aveva inviato in cui esprimeva tutto il suo pentimento.

“Io ero il Male. Eppure Papa Francesco ha avuto compassione di me. Gli ho scritto una lettera che gli è stata consegnata dal mio padre spirituale, monsignor Guido Todeschini. E dopo pochi giorni il Papa mi ha telefonato. Lui e don Guido sono persone sante”, esordisce Maso nell’intervista, la prima dopo esser uscito dal carcere – prima di Verona poi di Milano – in cui è stato rinchiuso per oltre un ventennio.

All’epoca dei fatti fu condannato a trent’anni; della sua perizia psichiatrica si occupò un esperto del calibro di Vittorino Andreoli che parlò di “ipertrofia narcisistica” con il “padre e la madre percepiti solo come un salvadanaio da cui prelevare quando serviva, e da rompere se il bisogno lo richiedeva”. Con l’indulto e gli sconti di pena per buona condotta gli anni diventarono però 22.

Maso ritrovò la libertà il 15 aprile 2013, circa un mese dopo l’elezione di Bergoglio. Ruppe il silenzio pubblicando lo stesso giorno il libro, scritto in collaborazione con la giornalista Mediaset Raffaella Regoli, dal titolo “Il male ero io”. Frase, questa, ripetuta a più riprese, come un personale mea culpa, durante il colloquio con il settimanale di Mondadori: “Io ero il male. Ma Papa Francesco ha avuto compassione di me…”.

“Erano le 10 del mattino – racconta l’ex detenuto – e suona il telefono. Ero con Stefania, la mia compagna, rispondo e sento: ‘Sono Francesco, Papa Francesco’. Preso dall’emozione dico ad alta voce: ‘Santità’. Era il 2013”. Prima della telefonata c’era stata una lettera: “Chiedo scusa per quello che ho fatto – scriveva Maso da dietro le sbarre al Pontefice -, chiedo preghiere per i miei colleghi di lavoro che mi hanno accettato nonostante quello che ho fatto, chiedo una preghiera per chi opera per la pace”.

Don Guido Todeschini fece in modo di recapitarla al Papa, che non esitò a telefonare qualche giorno dopo. Tra la sorpresa e l’emozione che bruciava nel petto, Pietro riuscì a dire al Santo Padre la frase che aveva formulato negli anni bui della galera, che decretava il totale cambio di vita, grazie anche ad un processo di avvicinamento alla fede: “Quello che andava al bar John con gli amici non vale niente rispetto al Pietro di oggi, se lo avessi saputo mi sarei comportato bene fin dall’inizio”.

Nell’intervista, l’uomo racconta di aver goduto della vicinanza di un altro Pontefice, Giovanni Paolo II. “Il mio delitto è stato così orrendo che tutti volevano cancellarmi, anche quando ero in carcere”, dice. “Solo mons. Todeschini mi tese una mano. Solo lui mi difese contro tutti. Dalle frequenze di Telepace, disse: ‘Ora dobbiamo chiederci che fine faranno questi ragazzi e soprattutto Pietro Maso , che è il più odiato. Lo seppelliamo vivo come meriterebbe o gli tendiamo la mano e cerchiamo di recuperarlo, tenuto conto della sua giovane età? Se noi lo lasciamo lì in carcere, dimenticato, commettiamo lo stesso delitto’. Le sue parole arrivarono a Papa Giovanni Paolo II che quando seppe cosa stava facendo con me gli disse: ‘Vai avanti’”.

Pietro è pentito e, ora che ha finito di scontare la sua pena, ha deciso pure di rivelare il vero motivo di quel tragico omicidio. Non fu per il desiderio di impossessarsi dell’eredità dei genitori, come si disse all’epoca del processo: “Io non ho ucciso i genitori per soldi, perché i soldi li avrei avuti lo stesso”, spiega nell’intervista. “Dissi che il motivo erano i soldi perché nel momento in cui abbiamo commesso l’omicidio un mio amico si era fatto fare un prestito ed eravamo sotto coi soldi. Ma ho tentato altre volte di uccidere i miei genitori, tentativi andati a vuoto di persone matte ma non ho mai pensato di uccidere per i soldi”.

“Io – prosegue – sono stato tanto malato da piccolo e i miei mi dicevano: ‘Non andare a lavorare perché sei malato’; ‘non uscire perché sei malato’; “pensiamo a tutto noi’. È come essere gay e i tuoi non lo sanno. Ti vedono diverso, hai 13, 14 anni e stai male e non capisci perché. Non ne puoi parlare liberamente, perché i tuoi non vogliono. Allora stai in casa e soffri perché lì dove dovresti trovare comprensione non la trovi. Anzi, dovresti andare via. Ecco forse questo disagio potrebbe essere la risposta a ciò che ho fatto”.

Ma il passato è ormai passato e, come dice Papa Francesco, “non esiste un peccatore senza futuro”. Pietro Maso guarda perciò avanti; da quando il suo matrimonio con Stefania è finito, si è trasferito in Spagna, a Valencia. Lì ha deciso di aprire una comunità di recupero, “una casa che accolga quelli che hanno sbagliato con la società e sono in mezzo alla strada”. Perché, afferma nell’intervista, “voglio dare un senso diverso alla mia vita. Solo chi è straniero capisce chi è straniero, solo chi è stato in carcere capisce chi è stato in carcere, solo chi ha sbagliato capisce chi ha sbagliato. Io non valgo niente, ma questa idea merita più di me”.

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Salvatore Cernuzio

Crotone, Italia Laurea triennale in Scienze della comunicazione, informazione e marketing e Laurea specialistica in Editoria e Giornalismo presso l'Università LUMSA di Roma. Radio Vaticana. Roma Sette. "Ecclesia in Urbe". Ufficio Comunicazioni sociali del Vicariato di Roma. Secondo classificato nella categoria Giovani della II edizione del Premio Giuseppe De Carli per l'informazione religiosa

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