L’arredo dell’altare

ROMA, sabato, 26 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo di don Enrico Finotti – parroco di S. Maria del Carmine in Rovereto (TN) – apparso sulla rivista Liturgia ‘culmen et fons’ (dicembre 2010).

 

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L’altare è ordinariamente corredato da tre principali segni in rapporto ai tre aspetti dogmatici dell’Eucaristia: – la croce, “sopra l’altare o accanto ad esso” (OGMR, 308), che ricorda il Sacrificio pasquale di Cristo che si celebra sull’altare in modo sacramentale; – la “tovaglia di colore bianco” (OGMR, 304), che richiama la santa Cena, forma rituale per la celebrazione dell’Eucaristia ;- “i candelabriin segno di venerazione e di celebrazione festiva” (OGMR,307), ma anche richiamo alla Presenza reale del Signore risorto e dell’azione del suo Santo Spirito.

Tovaglia, croce e ceri

È un luogo comune ritenere che gli arredi dell’altare siano casuali o comunque di poca importanza e, di conseguenza, vengano disposti in modo improprio o eliminati. In realtà anche l’arredo liturgico dell’altare rivela aspetti essenziali del Mistero e rende visibile nel simbolo le dimensioni interiori del Sacrificio e del Convito, che sull’altare si compie. Dobbiamo subito chiarire che per arredo liturgico dell’altare non si intende la materia del divin Sacrificio, ossia le oblate (pane, vino ed acqua), ma quegli oggetti che costituiscono quasi le ‘insegne’ dell’altare stesso e lo configurano come ‘icona’ di Cristo Sommo Sacerdote, che compie l’azione liturgica. Ed ecco che la tovaglia, la croce e almeno i due ceri proclamano le tre parti indissolubili dell’evento eucaristico: la reale Presenza, il Sacrificio e il Convito. Distendere sull’altare una tovaglia di colore bianco significa affermare che su di esso si compie il Convivio sacramentale secondo le parole del Signore “Prendete e mangiateprendete e bevetene tutti”; disporre ai lati dell’altare due ceri o due gruppi di ceri significa richiamare la reale Presenza, che si attua nelle parole di Cristo, uomo-Dio: “Questo è il mio Corpo…Questo è il mio Sangue”; porre sull’altare la croce significa riconoscere che lì si attualizza l’unico Sacrificio del Calvario, secondo le stesse parole del Redentore “Corpo offerto in sacrificio… Sangue versato in remissione dei peccati”. Gli arredi liturgici allora rendono visibile l’intero mistero nei suoi tre aspetti teologici essenziali e indivisibili: Presenza, Sacrificio, Convito. Vi potranno essere altri elementi decorativi, ma questi rimangono secondari rispetto ai tre principali, che, invece, esprimono i contenuti intrinseci alle stesse parole istituzionali dell’Eucaristia. Preparare l’altare con la tovaglia, la croce e i ceri significa descrivere con segni visibili gli aspetti invisibili dell’evento sacrificale e conviviale, che il Signore stesso realizza, rendendosi presente in modo ‘vero, reale e sostanziale’.

La Croce dell’altare

L’Ordinamento Generale del Messale Romano (OGMR) afferma: “Vi sia sopra l’altare, o accanto ad esso, una croce, con l’immagine di Cristo crocifisso, ben visibile allo sguardo del popolo radunato”. (OGMR, 308). La regola classica della croce, che sta sopra l’altare, rimane sempre valida come prima modalità che il novus ordo ha sempre previsto. Tuttavia, alla luce delle concrete realizzazioni postconciliari, la concessione che la croce possa essere collocata anche accanto all’altare, ha portato in molti casi a soluzioni dubbie in ordine all’ efficacia simbolica. Infatti la croce si è a tal punto allontanata dall’altare, da non apparire più come legata ad esso, ma, diventata autonoma, ha formato un proprio spazio indipendente.

Una croce lontana dall’altare, infatti, non interpreta più la sua identità di croce d’altare e in relazione intima con esso. La disposizione classica della croce al centro e dei candelabri ai lati sull’altare è certamente quella che assicura meglio la loro natura di insegne proprie dell’altare, in quanto fanno corpo con esso. Questa forma è certamente la meta migliore che si dovrebbe raggiungere, anche secondo le indicazioni del Sommo Pontefice. Non è tuttavia di immediata riuscita disporre con gusto sull’altare rivolto al popolo, al centro della mensa, la croce, ma, con intelligenza, equilibrio e senso estetico è possibile e auspicabile. Si tratta di evitare da un lato di creare una barriera così corposa da togliere ogni visibilità del sacerdote che compie gli atti del divin Sacrificio e dall’altro di non eccedere in dimensioni tali, quali la verticalità della croce e dei candelabri, da ledere le proporzioni e il senso estetico in rapporto alla massa talvolta esigua dell’altare ad populo. Ciò è adeguatamente richiamato dal Messale che afferma: “…tenuta presente la struttura sia dell’altare che del presbiterio, in modo da formare un tutto armonico; e non impediscano ai fedeli di vedere comodamente ciò che si compie o viene collocato sull’altare” (OGMR, 307). Certe croci processionali preziose, poste su un apposito ceppo, potrebbero egregiamente stare al centro dell’altare e costituire quella centralità del Kyrios, che attrae sia il sacerdote come l’intera assemblea e costituire veramente il cuore scintillante e l’insegna gloriosa dell’altare.

È necessario anche osservare che la croce, pur prossima all’altare, ma laterale, non afferma con la dovuta evidenza quella centralità ottica che sarebbe richiesta per il sacerdote e per l’intera assemblea, come ben si esprime il Messale “ben visibile allo sguardo del popolo radunato” (OGMR, 308). Una croce fuori dall’altare bipolarizza l’attenzione, la croce al centro dell’altare crea un unico polo di attrazione: l’altare, il cui titulus è la croce.

Anche far valere come croce d’altare la croce processionale, che raggiunge l’altare con la processione introitale e lo lascia nuovamente nella processione di congedo – uso peraltro non estraneo nella storia liturgica – non asseconda all’esigenza che l’altare debba rimanere sempre, anche fuori della celebrazione, rivestito con la dignità di tutte le sue insegne: “Conviene che questa croce rimanga vicino all’altare anche al di fuori delle celebrazioni liturgiche, per ricordare alla mente dei fedeli la salvifica Passione del Signore” (OGMR, 308). Il Messale, quindi, offre legittime libertà di scelta, tuttavia bisogna prender coscienza delle varie problematiche che da questa libertà ne possono insorgere.

I candelabri dell’altare

“I candelabri, richiesti per le singole azioni liturgiche, in segno di venerazione e di celebrazione festiva, siano collocati o sopra l’altare, oppure accanto ad esso, tenuta presente la struttura sia dell’altare che del presbiterio, in modo da formare un tutto armonico; e non impediscano ai fedeli di vedere comodamente ciò che si compie o viene collocato sull’altare” (OGMR, 307).

Come si può vedere rimane sempre valida la norma di collocare i candelabri sopra l’altare, anzi è proposta come prima forma. E’ quindi erroneo affermare che i candelabri non debbano mai stare sulla mensa dell’altare, ma sempre e solo accanto ad esso. Il recente uso della Cappella papale non fa che riprendere ciò che fu sempre ammesso e tuttora conforme al Messale vigente.

Da molte parti, però, si è ormai perduto il criterio simbolico nella disposizione dei candelabri dell’altare. Da un lato vi è il caso dei candelabri raggruppati insieme in una zona qualunque del presbiterio, senza alcuna relazione con l’altare; dall’altro si riuniscono i ceri su un angolo della mensa e sull’altro si mettono i fiori.

Nel primo caso si fa dei candelabri un polo a se stante, senza alcun rapporto con l’altare. Da ciò l’effetto di una zona presbiteriale invasa da una molteplicità di elementi (altare, ambone, sede, croce, candele, tabernacolo, ecc.) dislocati qua e là, senza più la loro reciproca relazione. In realtà anche i candelabri, co
me la croce, non possono costituire un polo a parte, ma devono essere strutturalmente correlati con l’altare al quale appartengono.

Nel secondo caso, molto diffuso, si compromette il senso sacro dell’altare, uniformandolo ad una comune mensa domestica. Ora l’altare è sì anche mensa, ma è la Mensa del Signore, sulla quale viene deposto il suo Corpo e il suo Sangue e dalla quale si innalza il suo Sacrificio redentore. Per questo l’arredo liturgico deve rivelare il mistero invisibile e ad esso condurre l’animo dei fedeli. I ceri dell’altare quindi non sono semplicemente come quelli che allietano una cena di gala, ma devono poter pro-clamare la presenza viva di Cristo e del suo Spirito e muovere i cuori dei presenti alla venerazione. Per riuscire in questo intento sacro è necessario adottare una regola ben precisa, diversa dall’uso profano. Disporre i due candelabri (o ceri) o i due gruppi di essi sui due lati della mensa delinea un’identità esclusiva e tipica dell’altare, sottolinea la centralità della croce, se questa si erge nel mezzo, e il popolo cristiano, subito, ne coglie l’originalità nella continuità della tradizione liturgica.

Sarebbe anche interessante, che nei candelabri, posti simmetricamente alle due estremità della mensa, o comunque divisi dalla croce che sta i mezzo, si ravvisi il simbolo delle due nature del Verbo incarnato, vero Dio e vero Uomo. La croce poi, quale vessillo di passione e di gloria, compirebbe il simbolo col riferimento alla Pasqua di morte e risurrezione. Così l’altare rappresenta ‘iconicamente’ Cristo nei due fondamentali aspetti del suo Mistero: l’Incarnazione e la Redenzione. In tal modo la Presenza reale e l’Atto sacrificale troverebbero una mirabile espressione simbolica. In questa luce potrebbe essere interessante l’ ‘inaugurazione’ dell’altare nella not-te di Natale, quando si accenderebbero i suoi ceri nella eventuale veglia lucernale, che prepara la Missa in nocte.

I sette candelabri d’oro

Una parola deve essere detta sull’uso antico dei sette candelabri nella celebrazione stazionale del vescovo. La norma, anche se facoltativa, è ancora prevista sia dal Messale Romano (OGMR, 117), come dal Cerimoniale dei Vescovi (CE,125,128). I sette candelabri sono posti sull’altare e anche portati nella processione introitale e finale. E’ interessante il loro simbolismo attinto dall’Apocalisse 1, 12-13. 16. 20: “… vidi sette candelabri d’oro e in mezzo ai candelabri c’era uno simile a figlio di uomo… nella destra teneva sette stelle… Questo è il senso recondito delle sette stelle che hai visto nella mia destra e dei sette candelabri d’oro, ec-colo: le sette stelle sono gli angeli delle sette Chiese e le sette lampade sono le sette Chiese”.

La visione dell’Apocalisse viene resa plastica nella Croce posta al centro dell’altare attorniata da sette candelabri. Tale visione riconduce all’esercizio del sacerdozio celeste del Kyrios, che si attua pure nel sacrificio sacramentale che si compie sull’altare terrestre. Si evidenzia in tal modo la dimensione gloriosa del sacerdozio e del sacrificio eucaristico, che si attua sotto il velo del sacramento: è il Kyrios, risorto e glorificato che presiede, nel fluire del tempo, mediante il ministero del Vescovo, l’unico ed eterno sacrificio, che perennemente è offerto sull’altare del cielo. Il riferimento poi alle sette Chiese, afferma la pienezza della liturgia pontificale, nella quale si attua col massimo grado sacramentale, localmente, il mistero della Chiesa una, santa, cattolica e apostolica (SC, 41). Il simbolo è ulteriormente specificato in Apocalisse 4, 5: “…sette lampade accese ardevano davanti al trono, simbolo dei sette spiriti di Dio” (cfr. Zc 4, 10). L’uso dei sette candelabri afferma anche la pienezza dell’effusione dello Spirito Santo, lì dove il Vescovo presiede solennemente alla celebrazione del divin Sacrificio.

E’ evidente che l’insieme di questi simboli conviene in modo sommo alla celebrazione papale, termine di comunione universale di tutte le Chiese e massima presenza dello Spirito che aleggia sulla Chiesa.

L’altare spoglio

Non soltanto nella prassi di alcune chiese moderne, ma anche nella teoria di talune attuali linee di pensiero si ammette e si propone l’idea e la realizzazione di un altare, che fuori della celebrazione dovrebbe rimanere sempre spoglio. In ambienti artistici ed estetici si contempla in questo una nobile maestà e in una visione raffinata, ma elitaria, si ritiene di potenziarne in tal modo la sua sacralità. Storicamente tale prassi fu presente e non si può misconoscere il fascino anche dell’altare spoglio.

Tuttavia nella celebrazione della liturgia si deve attenersi a quella forma che la Chiesa riconosce adatta al nostro tempo e, sarebbe un indebito archeologismo ricorrere a forme storiche interessanti, ma non recepite dalla disciplina attuale della Chiesa. La liturgia ha una storia e nel flusso di questa storia dobbiamo inserirci rimanendo però fedeli all’oggi e operando in sintonia con la celebrazione viva della Chiesa odierna.

Attualmente la Chiesa non considera l’altare sempre spoglio, ma lo ritiene, invece, sempre ‘rivestito’ delle sue fondamentali insegne: to-vaglia, croce e candelabri. Soltanto il Venerdì e il Sabato santo la liturgia romana stabilisce che l’altare sia totalmente spoglio (privo di tovaglia, candelieri, croce, tappeti, ecc.), quale ‘icona’ della passione del Signore e assenza, in questi giorni austeri, della celebrazione del divin Sacrificio. Cristo, infatti presiede sempre alla sua Chiesa e l’altare è il segno di Lui ed è luogo di venerazione anche fuori del rito, a chiesa vuota. Anzi un più ricco addobbo dell’altare (ceri, fiori, paliotto, ecc.) sottolinea la festa della Chiesa nelle solennità liturgiche, mentre l’assenza dei fiori esprime l’austerità tipica del tempo penitenziale e una certa sobrietà accompagna il tempo ordinario. Con un altare permanentemente spoglio non si vede come esprimere la desolazione del Venerdì santo, né come creare il diverso clima di solennità nello scorrere dell’Anno Liturgico, né come assicurare che anche fuori della celebrazione sia un luogo di venerazione e di preghiera per i semplici fedeli, che con difficoltà hanno la percezione elitaria di un artista o di un teologo. E’ intuitivo capire che un altare ben addobbato, con una decorosa tovaglia e la centralità di una croce veramente bella ed espressiva attira la preghiera più che uno splendido altare marmoreo, ma freddo e nudo, che potrebbe non parlare facilmente ai ‘poveri’ del popolo di Dio. Se si vuole ritornare ad educare i fedeli a riconoscere nell’altare, anche fuori del rito, il segno di Cristo, il Kyrios, e a prostrarsi davanti ad esso, come facevano gli antichi, bisogna evitare forme eccessivamente ermetiche e trovare quell’equilibrio di bellezza, tradizione e calore spirituale che è connaturale al migliore genio liturgico e pastorale dei secoli cristiani. La nobiltà dell’altare che risplende per mirabile arte eleva la fede, purifica i contenuti del dogma e suscita il senso del vero e il gusto del bello negli intellettuali e nei ‘semplici’, che presso l’altare di Dio diventano tutti bambini. Per questo il calore della preghiera, che nasce dal cuore, non può abbandonare l’altare e spingere i fedeli in luoghi laterali e forme alternative, legittime, ma che sono sempre rivoli che hanno la loro unica sorgente nella Presenza e nel Sacrificio che sull’altare si compie.

Domandiamoci: Guardando all’altare maggiore delle nostre chiese, possiamo spontaneamente esclamare: Presso il tuo altare, Signore, il mio cuore trova la pace?

In questa riflessione è voluto proporre una necessaria verifica sugli arredi dell’altare per non continuare ad essere dominati da pregiudizi gratuiti, assunti in modo acritico da usi ormai diffusi,
ma scorretti e abusivi. E’ necessario riprendere con intelligenza e buon gusto aspetti importanti, abbandonati con troppa facilità e che assicurano, nella continuità della tradizione, la profonda ricchezza dei simboli liturgici. Si tratta di far nuova chiarezza, nel tumulto talvolta frettoloso e superficiale, in cui ci può condurre una prassi liturgica senza teologia e senza radici. In tal modo la riforma liturgica viene potenziata, recuperando la densità simbolica della liturgia di sempre in vista di una sintesi superiore e più ricca.

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ZENIT Staff

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