La Chiesa in Gambia è pronta all’autosufficienza

Intervista al missionario irlandese, mons. Robert Ellison

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BANJUL (Gambia), lunedì, 20 settembre 2010 (ZENIT.org).- La Chiesa in Gambia è pronta all’autosufficienza, poiché può contare su un buon numero di preti e religiosi locali. Ciò che rimane da fare è trovare il necessario sostegno finanziario, afferma il vescovo dell’unica diocesi del Paese, Banjul.

Monsignor Robert Ellison è il pastore dell’intera nazione gambese, che si trova circondata dal Senegal ed è grande quasi quanto la regione Abruzzo.

Il Gambia è quasi interamente musulmano – al 90% – ma questo è uno dei motivi per cui la Chiesa locale ha tanto da offrire al mondo, secondo il vescovo: un Paese in cui due grandi religioni vivono fianco a fianco, in uno spirito di reciproco rispetto e comprensione.

In questa intervista rilasciata al programma televisivo “Where God Weeps”, realizzato da Catholic Radio and Television Network (CRTN), in collaborazione con Aiuto alla Chiesa che soffre, monsignor Ellison parla del suo Paese missionario e di come egli stesso abbia scoperto la vocazione all’evangelizzazione.

Lei è l’unico vescovo del Gambia ed è anche un missionario. Non si tratta di una contraddizione?

Monsignor Ellison: Direi di no. Io sono stato missionario in Gambia sin dagli anni Settanta. Quando sono arrivato in Gambia nel 1979, poco dopo la mia ordinazione, vi erano circa 22 missionari spiritani irlandesi. Io sono un missionario della Congregazione dello Spirito Santo – ci chiamiamo “spiritani” per brevità – e sono un membro della provincia irlandese degli spiritani. A quel tempo vi erano circa 22 spiritani irlandesi e nessun sacerdote gambese. Il primo prete locale (dell’era moderna, come la chiamiamo) è stato ordinato nel 1985. Tornando indietro ai primi anni del XX secolo, ne esistevano due, ma uno morì presto a causa della febbre e l’altro morì successivamente per cause naturali.

Lei è vescovo in Gambia e appartiene ai padri spiritani. Loro sono sempre stati in Gambia. Perché?

Monsignor Ellison: Non esistevano altri sacerdoti, come ho detto. E non esistevano altre congregazioni, probabilmente perché il Gambia è un Paese molto piccolo. Esiste solo una diocesi e la maggior parte della gente è musulmana. I cattolici sono circa 40.000 o 50.000 in tutto il Paese e nella diocesi.

La sua Congregazione è stata la prima ad arrivare in Gambia e ad evangelizzare?

Monsignor Ellison: Sì è così. Siamo arrivati nel 1849, tre anni prima della morte del nostro fondatore avvenuta nel 1852. I primi che sono arrivati qui erano francesi perché noi siamo stati fondati in Francia, ma per la fine del XIX secolo hanno iniziato ad arrivare i missionari irlandesi, dopo l’istituzione della provincia in Irlanda, al fine andare incontro ai bisogni dei Paesi anglofoni dell’Africa occidentale. Il nostro fondatore – il carisma del nostro fondatore, il suo orientamento o visione generale per la nostra Congregazione – voleva lavorare per l’evangelizzazione in particolare degli schiavi che venivano liberati dalle Indie occidentali e dall’America grazie all’abolizione della schiavitù. Con l’effettiva abolizione del commercio degli schiavi nel 1837, egli ha fondato la nostra Congregazione (1945) e i primi missionari sono arrivati nel 1849. È così che gli spiritani hanno iniziato a lavorare in Gambia.

Prima di andarci aveva già sentito parlare del Gambia?

Monsignor Ellison: Oh, sì, sì. Sono nato a Dublino, in Irlanda, a Balckrock, un paese a sei miglia a sud della capitale, e ho frequentato le scuole primaria e secondaria gestite dagli spiritani in Irlanda. Quindi dall’età di 6 anni, se vuole, ho iniziato ad immergermi in ciò che gli spiritani facevano non solo come educatori in Irlanda ma anche come missionari in Africa.

È stato allora che ha deciso di diventare missionario?

Monsignor Ellison: Beh, mettiamola così: a sei anni non è che pensassi al Gambia o a qualcosa di simile, ma presumo che l’impatto o l’influenza dei preti che mi insegnavano – a quel tempo vi erano alcuni insegnanti laici, ma la maggior parte erano sacerdoti – alcuni di questi erano rientrati dalle missioni e alcuni erano stati effettivamente in Gambia. Quindi quando ho finito la scuola al Blackrock College, Williamstown, nella contea di Dublino, all’età di 17 anni, avevo le idee abbastanza chiare su ciò che volevo diventare. […]

Guardando indietro rifarebbe tutto allo stesso modo?

Monsignor Ellison: Certamente lo rifarei, anche se non mi piacerebbe doverlo ripetere.

Ha avuto modo di essere un vero missionario in Gambia?

Monsignor Ellison: Ho avuto tantissime esperienze diverse di missione in Gambia. Quando sono arrivato, l’allora vescovo, il primo vescovo spiritano irlandese, monsignor Maloney, mi ha chiesto di lavorare nella nostra scuola superiore in Gambia: la St. Augustine’s High School. Talvolta la paragoniamo al Blackrock College di Dublino. Era una scuola molto ben gestita e disciplinata. Così ho insegnato lì per un anno. Poi ho fatto esperienza nella cattedrale parrocchiale. Dopo due o tre anni di permanenza in Gambia sono stato mandato a Roma per un corso sull’Islam. Era la prima volta che il corso del Pontificio Istituto di studi arabi e d’islamistica si teneva anche in inglese. Eravamo solo quattro studenti. Eravamo io, una suora francescana del Pakistan, un prete della Tanzania e uno della Nigeria. Eravamo trattati in modo speciale.

In che modo l’ha aiutata questo, una volta rientrato in Gambia, che è un Paese al 90% musulmano?

Monsignor Ellison: Sì, per il 90% musulmano. Mi sono sentito molto più a mio agio tra queste persone perche sapevo che … forse loro stessi non sapevano tante cose della loro religione che io invece sapevo, e sapevo che vi erano alcune cose che loro cercavano di vivere giorno per giorno. Penso a certi ambiti, di cui sicuramente quelli più evidenti sono quelli che si vedono da visitatore o da missionario, ovvero quelli legati alle pratiche della fede islamica. Non si può vivere in un Paese musulmano come il Gambia senza sapere che loro si svegliano alle 5,30 o alle 6 del mattino, perché non si riesce a dormire durante il richiamo del muezzin, la chiamata principale alle preghiere del mattino prima dell’alba. […]

Questo l’aiuta nella sua vita di preghiera?

Monsignor Ellison: Proprio così. Mi ha tolto le parole di bocca. È un richiamo diretto, anche per me come sacerdote, alla fedeltà ai 5 momenti di preghiera quotidiana che un sacerdote dovrebbe pregare secondo l’Ufficio divino o, come è chiamata oggi, la Liturgia delle ore. In questo ho visto un’opportunità per incoraggiare e ispirare i nostri cattolici e i nostri cristiani: i vostri fratelli musulmani sono in gran parte molto fedeli alle loro preghiere, ed è un’occasione perché voi impariate da questo, non in senso competitivo, ma come incoraggiamento a rendere culto a Dio allo stesso modo.

La Chiesa cattolica ha la possibilità di evangelizzare in Gambia?

Monsignor Ellison: Se parliamo di evangelizzazione, sì, noi evangelizziamo continuamente, ma non facciamo proselitismo e credo che dobbiamo essere chiari su questo punto. I musulmani in Gambia sono un popolo molto pacifico. Rispettano ciò che noi facciamo, ma esistono alcuni limiti e alcuni confini. Una o due volte abbiamo aperto delle missioni in diverse parti delle zone rurali, con lo scopo di evangelizzare i giovani attraverso le nostre strutture di istruzione.

Cosa è successo?

Monsignor Ellison: Era evidente che – talvolta si è trattato di scuole secondarie per ragazzi o ragazze – sebbene avessimo anche il permesso per battezzarli, appena questi uscivano di scuola e rientravano nei loro villaggi e nelle loro comunità, quasi automaticamente tornavano alla fede islamica, a causa della pressione sociale e comunitaria. Questo non significa che nessuno di questi battezzati effettivamente prosegua nella fede cristiana, ma
sicuramente la stragrande maggioranza no.

Come missionario, sente come una sofferenza l’impossibilità di evangelizzare queste persone?

Monsignor Ellison: No, ritengo che l’evangelizzazione – proclamare la Buona Novella del Vangelo – vada ben al di là della mera aggiunta di aderenti alla nostra istituzione cattolica. Alcuni potranno non essere d’accordo, ma io credo che lo scopo o la motivazione principale di Gesù, nel suo lavoro di predicazione del Vangelo, era di convertire le persone anzitutto nel loro cuore. Pensate alla quantità di gente, alle moltitutini a cui parlava, e al fatto che poi alla fine della sua vita terrena, non aveva più di 120 discepoli. Deve aver parlato a migliaia di persone. Molti lo hanno seguito, volevano sentire cosa diceva, ma non sono diventati formalmente suoi discepoli.

Credo che la cosa più importante che la Chiesa cattolica possa fare in situazioni come questa sia: anzitutto, rispettare i valori religiosi di una religione come l’Islam; cercare di incoraggiarli ad essere fedeli ai loro valori e dare testimonianza a quei valori nella nostra vita, nella nostra fede. I valori di amore, compassione, perdono, comprensione e rispetto reciproco. Il resto va lasciato a Dio e allo Spirito Santo.

Lei è vescovo ormai da due anni. Questo significa che è stato un vero esempio. Come riesce ad esserlo? 

Monsignor Ellison: Beh, non ci penso; lo faccio da vescovo così come lo facevo da sacerdote, salvo che ora, come pastore della diocesi, devo cercare di incoraggiare e ispirare i sacerdoti, le sorelle religiose e i laici perché lavorino sulla stessa linea. Credo che questo sia il vero senso, diciamo una parte importante del senso della nostra missione in un Paese come il Gambia: essere fedeli alla nostra fede in Cristo e lasciar parlare questa testimonianza. Alcuni effettivamente vengono a chiedere il battesimo, alcuni adulti, non molti, ma noi non forziamo la mano.

Il Gambia è molto piccolo e circondato dal Senegal che ha una popolazione cattolica più numerosa, circa il 6%, o poco più. Che rapporti ci sono tra i cattolici del Gambia e quelli del Senegal?

Monsignor Ellison: Diciamo che sono rapporti normali e informali tra famiglie, tribù e persone dei due Paesi, perché le rispettive popolazioni appartengono agli stessi gruppi etnici […] da entrambe le parti del confine. L’unica cosa che li ha divisi è che uno è stato colonizzato dai francesi e l’altro dagli inglesi, e questo ha provocato una certa divisione, ma le famiglie sono pienamente integrate tra loro su entrambi i lati della frontiera e vi è un gran traffico di attraversamento.

Qual è la percentuale dei cattolici e dei musulmani in queste tribù?

Monsignor Ellison: Il gruppo più consistente è quello dei mandingos (o mandinkas). Si tratta di una tribù molto povera, originaria della Guinea portoghese, la Guinea Bissau. Sono migrati verso il Gambia perché pensavano che vi fossero maggiori opportunità agricole o economiche, o di vita in generale. Sono diventati ora i più numerosi membri della nostra Chiesa. In generale sono pochi quelli che diventano musulmani, perché bevono vino di palma che non è consentito e mangiano il maiale, quindi gli stessi musulmani non li incoraggiano a convertirsi.

Che rapporti ci sono tra la Chiesa cattolica in Senegal e quella in Gambia?

Monsignor Ellison: I rapporti sono migliorati enormemente, direi, negli ultimi 10 o 20 anni, perché con la presenza dei giovani sacerdoti gambesi, i preti dialogano molto più facilmente rispetto ai vecchi missionari irlandesi; la lingua è sempre stata un grande ostacolo. La maggior parte dei missionari più vecchi, su entrambi i lati del confine … o i francesi non parlavano inglese, oppure gli irlandesi non parlavano francese. Quindi la situazione non si prestava ad una vera interrelazione. Ma ora che i preti gambesi parlano diffusamente la lingua dei senegalesi, il problema linguistico è superato. Da che sono diventato vescovo ho ricevuto diversi inviti dei vescovi senegalesi per celebrare la mia ordinazione, perché parlo il francese … o diciamo che me la cavo.

Vorrebbe che un giorno un sacerdote del Gambia prendesse il suo posto?

Monsignor Ellison: Certamente. Ma non è questione di volere; semplicemente succederà, presumo. Non v’è dubbio. Non c’è quasi nessuno dopo di me, se vogliamo metterla così. Solo due o tre anni fa avrei detto che si attendeva un vescovo di nazionalità gambese, ma evidentemente lo Spirito Santo si è intromesso e il Santo Padre ha deciso diversamente.

Cosa può offrire la Chiesa del Gambia alla Chiesa cattolica universale?

Monsignor Ellison: Preferirei cambiare lievemente la domanda: non solo alla Chiesa cattolica universale. Io credo che il Gambia, pur essendo un Paese molto piccolo, ha una caratteristica meravigliosa da esportare. Non mi viene la parola giusta.

Di che si tratta?

Monsignor Ellison: È lo spirito di due grandi religioni, Cristianesimo e Islam, che vivono fianco a fianco in uno spirito di reciproco rispetto e comprensione. Il mondo in cui viviamo è così frantumato, così diviso e così conflittuale, soprattutto tra cristiani e musulmani, che il Gambia ha qualcosa da testimoniare: è l’esempio vivente che ciò è possibile. Buona parte di questo si deve alla natura della gente gambese: sono persone che amano la pace; si autodefiniscono la costa sorridente dell’Africa occidentale e c’è molto di vero in questo.

Quali sono le sfide che lei e la Chiesa cattolica dovrete affrontare in Gambia?

Monsignor Ellison: La più grande sfida che esiste in questo momento è la sua storia, perché stiamo per diventare quasi completamente un’autentica Chiesa locale o particolare. I preti e le suore del Gambia sono molti. I catechisti gambesi ci sono sempre stati. La Chiesa in Gambia deve ora affrontare l’esigenza di una sempre maggiore autoconfidenza. Già ha questa confidenza nel meraviglioso personale giovane. Manca invece la parte economica e finanziaria. Nel 1990, circa 20 sacerdoti della diocesi provenivano dall’estero: la maggior parte di loro erano missionari irlandesi e cinque erano sacerdoti gambesi, tutti giovani.

Qual è la situazione oggi?

Monsignor Ellison: Oggi vi sono quasi 20 preti gambesi e quattro o cinque sono i missionari irlandesi, per così dire ad esaurimento. Quindi è un totale rovesciamento rispetto a 15 anni fa. A quel tempo era anche più facile ottenere finanziamenti dall’Europa, o a livello personale, o a livello istituzionale. Questo oggi non è più possibile.

Quindi se vorremo mantenere le nostre strutture, i nostri grandi impegni di lavoro e di contributo all’educazione nel Paese – dall’asilo alle superiori – oltre al personale e all’entusiasmo dobbiamo avere i finanziamenti. Se un prete non può muoversi, non può … ha bisogno della macchina per esercitare il suo ministero sacerdotale ma anche per il suo lavoro teso allo sviluppo e all’educazione.

E le organizzazioni della cosiddetta Europa cristiana sono molto riluttanti a dare soldi per le esigenze di evangelizzazione. Questo è molto triste. Ma non si può evangelizzare senza al contempo lavorare allo sviluppo economico e all’istruzione. Sarebbe una visione molto miope dell’evangelizzazione. E neanche si può parlare esclusivamente di opere di sviluppo se non è uno sviluppo integrale, in cui si lavora non solo per aiutare il corpo nei suoi bisogni materiali, ma anche per promuovere valori come l’onesta, la giustizia, il perdono e la comprensione, per aiutare le persone a vivere nella pace. Così tanto lavoro in Africa non è andato avanti come avrebbe dovuto a causa della mancanza di pace in quei Paesi. E non ci sarà vera pace finché non saranno rispettati i valori religiosi.

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Questa intervista è stata condotta da Marie-Pauline Meyer per “Where God Weeps”, un programma televisivo e radiofonico settimanale, prodotto da Catholic Radi
o and Television Network in collaborazione con l’organizzazione internazionale Aiuto alla Chiesa che soffre.

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ZENIT Staff

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