di Giorgio Mion*
ROMA, giovedì, 16 settembre 2010 (ZENIT.org).- E’ necessario riflettere sulla recente riapertura di un fronte potenzialmente conflittuale sul contratto collettivo nazionale di un settore altamente simbolico come quello dei metalmeccanici: ci riferiamo, infatti, alla disdetta da parte di Federmeccanica del Contratto nazionale a partire dalla sua scadenza (cioè il 1° gennaio 2012) e la conseguente rottura del fronte sindacale, con CISL e UIL aperte ad un nuovo confronto e FIOM-CGIL lanciata verso lo scontro frontale.
A questo, si aggiungono altri segnali arrivati nei giorni e nei mesi scorsi dalla cronaca: si pensi, ad esempio, alla contestazione – al contempo grave socialmente ed imbarazzante politicamente – avvenuta ai danni del segretario confederale CISL Raffaele Bonanni a Torino, nonché alla questione pre-estiva dello stabilimento FIAT di Pomigliano d’Arco, altro caso in cui i sindacati confederali non sono riusciti a trovare una linea comune, lasciando la CGIL ancora una volta sola, caparbiamente arroccata in posizione contraria.
La questione non è, ovviamente, legata solo al contratto dei metalmeccanici, ma si estende – sotto un profilo logico – all’intera questione delle relazioni sindacali, dei rapporti impresa-lavoratori, che sono cruciali nella dinamica di sviluppo dell’impresa, ma lo diventano ancor più in un momento critico per la crescita economica.
Mi pare che la questione possa e debba essere affrontata sotto un triplice ordine di considerazioni, di crescente importanza. In primo luogo, pur riconoscendo al settore metalmeccanico in questione un’importanza storica primaria per lo sviluppo dell’economia nazionale, è ora di demitizzarlo. È necessario che, finalmente, si esca da quella dimensione epica delle relazioni sindacali “con le tute blu in piazza”: si tratta di una visione legata indissolubilmente ad uno scenario economico che non esiste più e che rischia di mortificare ancor più le potenzialità di ripresa del nostro Paese. Utilizzando uno slogan, sarebbe tempo di “de-Fiattizzare” la questione sindacale: il sindacato – e di questo pare la CGIL non riesca a rendersi conto – non ha bisogno di un nemico “grande e brutto” per esistere, ma necessita di competenza, autorevolezza e credibilità per dialogare con gli interlocutori istituzionali e – soprattutto – con gli stessi lavoratori.
In seconda istanza, pare necessario far tornare le questioni sindacali nell’alveo da cui derivano, ovverosia quello delle politiche e strategie aziendali; diversamente, ogni vertenza – vera o presunta – è, per l’Italia, l’aprirsi di un fronte di scontro politico, necessario a questo o quel personaggio politico per conquistare uno spazio di visibilità e, possibilmente, qualche succulento bacino di voti. Mai come in questo periodo, infatti, pare che la questione sindacale intersechi i mali della sinistra italiana, alla ricerca di una sua identità e di credibilità proprio presso l’elettorato composto dagli iscritti al sindacato; tentativo, d’altronde, malcelato anche da parte della destra, quando strizza l’occhiolino a questa o quella sigla sindacale, in aperto contrasto con altre. Aggiungendo un ulteriore slogan, le relazioni sindacali italiane vanno “de-politicizzate”, permettendo agli interlocutori di confrontarsi sui temi contrattuali ed imprenditoriali, senza “fare il verso” alla politica.
Infine, uscendo dal contingente e guardano in avanti verso il lungo periodo, appare necessario uno sforzo collettivo da parte delle imprese e del sindacato, ma anche delle istituzioni, in un’azione culturale sul tema del lavoro: temi come quelli della formazione professionale, dell’orientamento (allo studio e al lavoro), del collegamento tra scuola, università ed imprese, del reclutamento del personale, sono centrali per fondare luoghi di lavoro e relazioni sindacali serene e feconde. Avere lavoratori formati male, poco motivati e frustrati non conviene a nessuno, perché deprimono la produttività dell’impresa e tendono ad aumentare la conflittualità sociale. Tuttavia, ciò che più mi preme sottolineare è come questo costituisca un danno antropologico terribile, su cui si gioca la cultura del lavoro: la dignità del lavoro affonda le proprie radici non nel suo contenuto oggettivo (cosa si fa), ma nella sua dimensione soggettiva (chi lo fa). Allora su questa questione non solo le istituzioni devono concentrarsi di più, non solo le imprese sono chiamate a fare investimenti lungimiranti, ma soprattutto il sindacato deve interrogarsi, domandandosi quale servizio ai lavoratori – di oggi e di domani – stia facendo e che futuro stia contribuendo a costruire.
————-
*Giorgio Mion è professore associato presso l’università di Verona, insegna economia aziendale ed è collaboratore dell’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa.