MOSUL (Iraq), lunedì 6 settembre 2010 (ZENIT.org).- Qualche anno fa, l’Arcivescovo di Mosul è stato vittima di violenze in Iraq. Rapito da sconosciuti, è stato prima minacciato di morte e poi infine rilasciato.
Rispondendo ai suoi rapitori, che gli avevano chiesto quanti soldi avesse, l’Arcivescovo ha detto che nel caso l’avessero ucciso: “allora dovrete distribuire voi questi soldi ai poveri, al posto mio”.
Monsignor Basile Georges Casmoussa, 71 anni, è Arcivescovo di Mosul per i cattolici siriani. Quando parla della sua terra, gli spunta subito un sorriso perché – afferma – rafforza la sua speranza nell’umanità.
In questa intervista rilasciata al programma televisivo “Where God Weeps”, realizzato da Catholic Radio and Television Network (CRTN), in collaborazione con Aiuto alla Chiesa che soffre, il presule riflette sull’urgenza della pace per la sua nazione in subbuglio.
Vorrebbe che i soldati americani andassero via dall’Iraq il prima possibile?
Monsignor Casmoussa: Mi fa la domanda migliore all’inizio. Sì, certamente, ogni soldato normalmente desidererebbe tornare a casa. Ciò di cui abbiamo bisogno e ciò che auspichiamo è la pace per il nostro Paese. Credo che sia una buona cosa quella di studiare le modalità del rientro, per costruire la pace e la tranquillità, e consolidare l’amicizia tra i due popoli: quello dell’Iraq e quello degli Stati Uniti.
I cristiani sono penalizzati in Iraq dalla presenza dei soldati americani?
Monsignor Casmoussa: Non la metterei in questi termini. Tutti gli iracheni sono penalizzati dalla presenza di un esercito straniero. I cristiani, una minoranza, sentono di esserne più influenzati di altri, ma la realtà è che tutte le persone soffrono a causa della situazione della guerra.
Vivere in Iraq è ancora molto pericoloso e forse anche nella regione in cui lei vive. Lei stesso è stato rapito nel 2005. Ci può dire chi l’ha rapito e perché?
Monsignor Casmoussa: Sì. Non so chi fossero, ma so di essere stato rapito. Ad oggi ancora non so se erano fondamentalisti, un gruppo politico o altri. Sono stato trattenuto per 20 ore. Direi che mi hanno trattato in modo corretto. Ero tranquillo con loro, parlavo e rispondevo alle loro domande.
Cosa le hanno chiesto?
Monsignor Casmoussa: Per esempio mi hanno chiesto perché diciamo che Cristo è il Figlio di Dio, perché noi sacerdoti non ci sposiamo, quale è il significato del matrimonio nel Cristianesimo, e così via.
Ma l’hanno rapita perché pensavano che fosse una spia americana, o per quale ragione?
Monsignor Casmoussa: No, nulla di tutto questo. Non mi hanno accusato di nulla. Questo talvolta viene usato come pretesto ma non è vero e non mi hanno accusato di questo. Dicono sempre qualcosa sul legame con le forze d’occupazione.
Ci può dire cosa le è successo? Come è stato rapito, se era per strada o in chiesa?
Monsignor Casmoussa: Stavo visitando una famiglia e dopo la visita ho benedetto la loro nuova casa. Alcuni giovani hanno buttato giù un albero per bloccarmi e mi hanno messo nel portabagagli della loro macchina.
Ha temuto per la sua vita?
Monsignor Casmoussa: Quando ero nel portabagagli pregavo Dio di darmi la grazia di restare calmo e di avere speranza fino alla fine, e che fosse fatta la sua volontà. Chiedevo anche che mi desse la grazia di rimanere tranquillo e di non dire nulla di pregiudizievole. Sono rimasto molto calmo quando uno di rapitori mi ha chiesto quanti soldi avessi. Gli ho risposto quanti soldi avevo e che ce l’avevo scritto nel mio quaderno, e che i soldi erano per i poveri. Lui mi ha detto: “Sarai ucciso”. Io ho risposto: “Va bene, allora dovrete distribuire voi questi soldi ai poveri, al posto mio”.
E cosa le hanno risposto? Sebbene i soldi fossero destinati ai poveri, magari loro li volevano per se stessi o per fini terroristici…
Monsignor Casmoussa: Può darsi. Io non lo so. Ma il secondo giorno, quando sono stato minacciato di essere ucciso, uno mi ha chiesto se avevo qualcosa da dire ai miei cari. Ho detto: “Sì”. Mi sono messo a pregare, abbandonandomi nelle mani di Dio e poi ho detto: “Offro la mia vita come sacrificio per la pace in Iraq e perché tutti i figli del popolo iracheno, musulmani e cristiani, uniscano le mani per costruire il Paese”. Lui mi ha detto: “No, voglio avere qualcosa di speciale da te, personalmente”. Gli ho risposto: “Non ho nient’altro”. Il modo di parlare era cambiato e il problema era risolto.
Quindi lei è amato sia dai cristiani che dai musulmani?
Monsignor Casmoussa: Forse è un dono di Dio. Quando sono tornato all’Arcivescovado, una signora anziana mi ha detto: “Eccellenza, ho pregato che Dio rompesse loro il collo”. È un’espressione araba. Ma io le ho risposto: “Se Dio gli rompe il collo, aumenta il numero degli handicappati. Chiediamo a Dio di rompere il loro cuore per un miracolo”.
Molti iracheni cristiani stanno abbandonando il Paese. E lei è ancora a Mosul. Cosa la trattiene qui?
Monsignor Casmoussa: Credo che un modo per far rimanere i cristiani in Iraq sia quello di tornare ad una situazione di pace, perché hanno lì la propria casa, il proprio lavoro, la propria storia. Come è noto, noi cristiani in Iraq non proveniamo da altri Paesi. Siamo qui da duemila anni, ovvero sin dall’inizio del Cristianesimo, e qui abbiamo le nostre case. Abbiamo la nostra storia, la nostra identità. Abbiamo le nostre chiese, i nostri monasteri. Non è facile abbandonare la propria identità.
Lei stesso è nato nei pressi di Mosul?
Monsignor Casmoussa: Sì, a Kirkuk. In tutte queste zone attorno a Mosul e nel parte nord, che ora chiamate Kurdistan, vi sono terre cristiane. Abbiamo migliaia e migliaia di chiese e monasteri. Abbiamo manoscritti e libri che parlano della storia del Cristianesimo in questa terra. L’Islam è arrivato nel 632 d.C., nel VII secolo, ma prima, il Cristianesimo era organizzato con chiese, monasteri e ordini.
Ma ora i musulmani vengono importati nei villaggi cristiani. È in atto una sorta di pulizia etnica per il fatto che famiglie musulmane vengono inserite nei villaggi cristiani?
Monsignor Casmoussa: Sì, vi sono alcuni quartieri di Baghdad da cui sono stati eliminati i cristiani. Ma alcuni quartieri, principalmente a Baghdad, sono stati anche ripuliti dai sunniti e rimpiazzati da sciiti. Non so; ci ridiamo sopra, ma il problema è diverso per i villaggi cristiani. I villaggi cristiani della piana di Ninive sono lì da sempre. Lì hanno la loro casa. Quando si portano migliaia di famiglie musulmane in queste aree a maggioranza cristiana, i cristiani diventano minoranza e cambia la composizione demografica. E anche la questione culturale: oggi tutti possono frequentare liberamente le nostre scuole e le nostre chiese, perché sono aperte. Se diventiamo una minoranza, in questi luoghi storici, perdiamo tutto.
Questo significa che perdete le chiese o le scuole?
Monsignor Casmoussa: No, non le perdiamo come edifici, ma perdiamo la nostra libertà, la nostra cultura e la nostra personalità (la nostra identità), e veniamo diluiti nella maggioranza, come è stato per le grandi città come Baghdad. Quando si ha un regime democratico e il Paese è libero per tutti, ciascuno ha i propri diritti come individuo e come comunità, cristiani e non cristiani. Per esempio, nelle nostre scuole ora, se c’è uno studente musulmano, quel musulmano ha diritto all’insegnamento islamico, cosa che va bene e noi siamo d’accordo, ma per i cristiani si deve invece raggiungere il 51% per avere il diritto all’insegnamento cristiano.
Quindi è ingiusto?
Monsigno Casmoussa: Sì. Se si hanno gli stessi diritti per tutti i cittadini, non si avranno speciali privilegi. I privilegi esistono quando non si assicurano ai cittadini eguali diritti. Negli Stati Uniti, gli im
migrati dall’Iraq, dalla Cina, dal Giappone, dall’Europa e dall’Irlanda possono mantenere la loro lingua e la loro cultura, ma vengono considerati americani, cittadini americani con gli stessi diritti. Noi chiediamo questo. Finché non lo avremo, continueremo a pretendere il riconoscimento della nostra identità e della nostra cultura.
Ma come riesce a stare qui, seduto, così sorridente e amichevole, sapendo della gravità dei problemi e che rischia di perdere la propria identità a casa?
Monsignor Casmoussa: Lei mi chiede di piangere, ma questa è la vita e noi manteniamo la speranza nel futuro. Abbiamo speranza nell’uomo. Per quanto sia inospitale il nostro Paese per la nostra gente, se ci accordassimo per un governo democratico, gli Stati Uniti potrebbero trovare una soluzione ragionevole alla questione.
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Questa intervista è stata condotta da Marie-Pauline Meyer per “Where God Weeps”, un programma televisivo e radiofonico settimanale, prodotto da Catholic Radio and Television Network in collaborazione con l’organizzazione internazionale Aiuto alla Chiesa che soffre.