ROMA, venerdì, 28 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato dall'Arcivescovo Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, intervenendo il 26 novembre al Convegno di studi dal titolo “La scienza 400 anni dopo Galileo Galilei. Il valore e la complessità etica della ricerca tecno-scientifica contemporanea”, organizzato dalla Finmeccanica in occasione del 60 ° anniversario della sua fondazione presso il complesso monumentale di Santo Spirito in Sassia, a Roma.

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di Gianfranco Ravasi

Tanti sono i sentieri che intercorrono tra le due cittadelle, non opposte ma distinte, della scienza e della teologia. Ne vogliamo ora imboccare uno solo che ruota attorno a una questione imponente a livello ideale e pratico, quella del rapporto con la verità. Il filosofo greco Protagora (v secolo prima dell'era cristiana) aveva proclamato la convinzione che «l'uomo è la misura di tutte le cose», in pratica è al tempo stesso il giocatore e l'arbitro nella partita della vita: non c'è una verità assoluta che ci precede, ma è il singolo o il gruppo a determinarla nelle situazioni concrete e mutevoli e secondo gli interessi o i vantaggi contingenti. È quello che potremmo classificare come «soggettivismo» o, per usare un termine caro a Papa Benedetto xvi, come «relativismo».

L'impostazione classica del rapporto con la verità è, però, stata molto differente. La potremmo formulare con un aforisma dei Minima moralia (1951) di Theodor Adorno: «La verità non la si ha, ma vi si è, come per la felicità». Già nell'Uomo senza qualità (1930-43) Robert Musil affermava: «La verità non è un cristallo che si può mettere in tasca, bensì un mare sconfinato in cui ci si immerge». Il vero è visto, dunque, come un primum assoluto che ci precede e verso il quale la ricerca dell'uomo tende. La ragione ha intrinsecamente bisogno di questo nutrimento per il suo stesso esercizio, come in modo altamente simbolico ricordava il Fedro platonico: «Il motivo per cui le anime mettono tanto impegno per poter vedere la Pianura della Verità è questo: il nutrimento adatto alla parte migliore dell'anima proviene dal prato che è là e la natura dell'ala con cui l'anima può volare si nutre proprio di questo» (248 b-c).

Nella concezione filosofica greca, infatti, come l'eunomía, cioè la legge buona e giusta, è la stella polare che incarna il riferimento capitale della giustizia «oggettiva» in sé stante, fonte della norma etica, così l'alètheia antecede come meta di orientamento l'attività dell'intelletto, rendendo la filosofia nella sua intima essenza ricerca e servizio della verità che la trascende e ne costituisce l'oggetto. Potremmo, perciò, affermare che nella concezione classica l'amore per la verità è il paradigma stesso della ricerca filosofica ed è quindi anche il metro della stessa scientificità. La nuda veritas — per usare la famosa espressione delle Odi di Orazio (i, 24, 7) — è l'unica autorità che va rispettata e accolta.

Questa interpretazione ha retto per secoli non solo il pensiero cristiano ma anche l'investigazione di ogni disciplina, sulla scia del famoso appello agostiniano: Intellectum valde ama (Epistulae, 120, 3, 13), ama molto l'intelligenza la cui missione radicale è appunto quella di conoscere la verità. E «la ricerca della verità — come ricordava Giovanni Paolo ii nel suo discorso per il centenario della nascita di Einstein (1979) — è il compito fondamentale della scienza» stessa, proprio perché, continuava il Papa nell'enciclica Fides et ratio (n. 25), riprendendo il celebre passo d'apertura della Metafisica di Aristotele, «tutti gli uomini desiderano sapere e oggetto proprio di questo desiderio è la verità».

La modernità, però, ha impresso a questa concezione una netta torsione proponendo una visione quasi totalmente alternativa. Il percorso ha avuto i suoi prodromi ideali con Thomas Hobbes allorché nel suo Leviatano (c. xxvi) aveva formulato uno dei principi decisivi del positivismo legislativo: auctoritas non veritas facit legem. Per quanto riguardava il diritto, quindi, alla verità intrinseca dell'eunomía si opponeva l'autorità civile o religiosa che poteva sancire norme e progetti prescindendo dalla verità superiore. In sintesi, secondo il filosofo inglese del Seicento, «la pretesa di possedere la verità e il diritto di imporla, deve essere esclusa dalla politica e lo stabilire leggi e regole che governano i comportamenti, dovrebbe essere riservato non a coloro che conoscono la "verità", soggetta alle interpretazioni individuali o collettive, ma all'autorità indipendente e incontestabile» (così Davis Gress nel saggio Peace and Survival del 1985).

Questa prospettiva si è allargata progressivamente alla stessa filosofia e alla scienza ed è dilagata ai nostri giorni, mettendo profondamente in crisi la funzione della verità. Anzi, si è divenuti sempre più convinti che la verità non solo non va ricercata né obbedita ma che deve essere accantonata e relegata ai margini di una corretta epistemologia. Illuminante è l'asserto che Patricia Smith Churchland in un articolo apparso nel 1987 sul The Journal of Philosophy ha imposto alla sua concezione della scientificità: Truth, whatever that is, definitely takes the hindmost, la verità, qualunque essa sia, deve occupare chiaramente non più il primo posto di riferimento, ma dev'essere relegata nelle retrovie, come retroguardia e zavorra del pensiero.

Non è mancato il passo successivo di chi ha esorcizzato il concetto stesso di verità ritenendolo persino nocivo. Sappiamo che il famoso detto di Cristo «La verità vi farà liberi» (Giovanni, 8, 32) ha di per sé come soggetto una particolare accezione di «verità», cioè la rivelazione divina offerta dal Figlio; tuttavia la frase è stata assunta nella storia della tradizione come un'esaltazione della funzione liberatoria e liberatrice della verità. Ebbene, ammiccando proprio alla frase giovannea, Sandra Harding in un suo scritto del 1991 (Whose Science? Whose Knowledge? Thinking from Women's Lives) giunge invece alla sua negazione assoluta, dichiarando che «la verità, qualunque essa sia, non ci farà liberi». Ma è noto che già Michel Foucault a più riprese nei suoi scritti aveva percepito la verità come un grave pericolo dell'intelletto e non certo come una dotazione positiva, incline com'è a essere esclusiva, impositiva, schiavizzante.

È in questo particolare e inedito contesto che si colloca non solo l'affermazione di Benedetto xvi secondo cui «l'èthos della scientificità è volontà di obbedienza alla verità», ma anche l'intera impostazione del suo discorso di Ratisbona, così come non pochi spunti del discorso del 17 gennaio 2008 per l'università «La Sapienza» di Roma. La sua è la proposta di restituire alla verità la propria missione intrinseca, formativa e normativa, il suo primato che non è di dominio ma di liberazione, la sua presenza che non è tirannica ma illuminante. Naturalmente questo è possibile solo con un'inversione di tendenza, come già era suggerito da Giovanni Paolo ii nella Fides et ratio (n. 83): «È necessaria una filosofia di portata autenticamente metafisica, capace di trascendere i dati empirici per giungere, nella sua ricerca della verità, a qualcosa di assoluto, di ultimo, di fondante».

E già nel 1984, in occasione della consegna del «Premio Internazionale Paolo vi» a Hans Urs von Balthasar, lo stesso Pontefice aveva ribadito che «amare la verità vuol dire non servirsene, ma servirla; cercarla per se stessa, non piegarla alle proprie utilità e convenienze». Ovviamente questo atteggiamento è indispensabile alla teologia, ma deve ritornare a insediarsi anche nella scienza, superando quella concezione riduttiva secondo la quale essa tende a comprimersi nel perime tro della tecnica, amputando qualsiasi domanda ultima, evitando gli orizzonti teorici fondanti, accontentandosi della mera applicabilità o delle ridondanze esclusivamente etico-sociali. È, al riguardo, significativo quanto già lo stesso Giovanni Paolo ii aveva indicato nel discorso tenuto a scienziati e studenti nella cattedrale di Colonia nel 1980 in un passo che ben rifletteva e registrava l'attuale temperie scientifica.

«Se la scienza è intesa essenzialmente come "un fatto tecnico", allora la si può concepire come ricerca di quei processi che conducono ad un successo di tipo tecnico. Come "conoscenza" ha valore quindi ciò che conduce al successo. Il mondo, a livello di dato scientifico, diviene un semplice complesso di fenomeni manipolabili, l'oggetto della scienza una connessione funzionale, che viene analizzata soltanto in riferimento alla sua funzionalità. Una tale scienza può concepirsi soltanto come pura funzione. Il concetto di verità diventa quindi superfluo, anzi talvolta viene esplicitamente rifiutato. La stessa ragione appare, in definitiva, come semplice funzione o come strumento di un essere che trova il senso della sua esistenza fuori della conoscenza e della scienza, nel migliore dei casi nella vita soltanto».

Benedetto xvi procede ulteriormente ricordando che il concetto stesso di verità deve essere assunto nella sua massima espansione, superando «la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell'esperimento» e dischiudendosi alla verità tutta intera: «In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell'università e nel vasto dialogo delle scienze». Una visione più piena che non impone salti di frontiera, confondendo i modi specifici e gli statuti propri di ogni disciplina ma ne costituisce il dialogo fecondo e gli incroci positivi, essendo tutte le autentiche ricerche in cammino verso la verità che rende autenticamente liberi.