Sandro Curzi: occorre ritrovare il coraggio di San Paolo

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ROMA, sabato, 22 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervista al giornalista e scrittore Sandro Curzi, apparsa sul terzo numero di “Paulus” (settembre 2008) dedicato a “Paolo il comunicatore”.

 

 

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di Antonella Gaetani

 

Sandro Curzi ha iniziato a scrivere a circa quattordici anni. Siamo in piena guerra, la contrapposizione tra fascisti e antifascisti è forte. Frequenta, a Roma, il liceo Tasso. E inizia a dare il suo contributo alla resistenza raccontando questo periodo difficile e «amaro», ci dice. Mentre armeggia con la sua immancabile pipa, ci racconta la passione di una vita, il giornalismo, e la voglia di avere valori su cui confrontarsi. Vicino al suo tavolo ci mostra un elmetto: è quello indossato da un soldato iracheno trovato morto dentro un carro armato dalla troupe del Tg3, da lui diretto. «Scoprirono dei corpi morti senza alcun segno di ferite. Lì avanzammo l’ipotesi, che creò malumori, che si trattasse di un gas nuovo. Però non abbiamo mai saputo».

Quest’anno si celebra l’Anno Paolino. Secondo lei, cosa rappresenta oggi la figura di Paolo di Tarso, un uomo che ha viaggiato e scritto per ciò in cui credeva?

«Può rappresentare, se ristudiato e, soprattutto, se cerchiamo di fare uno sforzo, principalmente noi laici, di ricoprire delle cose di san Paolo di grande valore. Secondo me, le sue riflessioni ci offrono un aiuto nell’affrontare delle difficoltà molto serie del mondo di oggi. Va ritrovato il coraggio delle sue scelte e del suo modo di essere. Non c’entra solo la fiducia nella fede, ma nell’uomo, che mostra come questo, se vuole, può fare delle cose positive».

Lei ha cominciato a scrivere da quando era molto giovane. Quali esigenze la spingevano?

«Mia madre mi diceva che a tre anni facevo finta di scrivere e di fare il giornalista. È stata la mia grande passione. La scrittura, poi, è arrivata tra il ’43 e il ’44. Roma è occupata dai nazisti. Lo scontro è duro. Sento una forte esigenza di documentare, pur non negando mai le mie idee politiche, la mia militanza non ha agito sul mio modo di scrivere. Volevo che il fatto parlasse, prescindendo dalle mie idee. Al Tg3, quando sono diventato direttore, ho spiegato ai miei redattori come volevo lavorare. La televisione, rispetto al giornale, non si sceglie, è già in casa. Per cui il rispetto delle opinioni diverse è una cosa fondamentale. Era necessario dare spazio alle doppie voci. Noi dovevamo essere un piccolo giornale, ma, in realtà, riuscivamo ad avere cifre alte. Durante la guerra nel golfo, anche se non condividevo il conflitto, misi due esperti con posizioni opposte a commentare i fatti. Ho cercato di evitare una forte contrapposizione, il telegiornale lo vedono tutti e bisogna rivolgersi a tutto il pubblico».

Giornalista per la stampa e per la televisione, cantante, politico… la sua vita è stata dedicata a tempo pieno al mondo della comunicazione, in tutti i suoi settori. Che bilancio ne traccia, quest’oggi?

«Sono contento della mia vita. Penso di aver fatto quello che mi piaceva e quello che volevo, anche se ho sbagliato molte cose. Però ho agito credendo in quello che facevo. Ricordo un incontro in Vaticano con Giovanni XXIII: quel colloquio ha inciso molto nella mia esperienza. Non mi sono mai trovato con un uomo così importante, che avesse una tale facilità di dialogo, era come se stessi parlando con mio nonno. I suoi gesti, il suo modo di parlare era molto semplice. Lui mi disse: «Anche se ci sono posizioni diverse, bisogna sempre cercare un filo». E lo sto ancora cercando, ma, forse, c’è. Oggi, va cercato questo filo, soprattutto perché la globalizzazione sta creando dei grossi problemi aprendo grandi disequilibri. Una delle cose che da sempre mi è stata chiara è che le disuguaglianze così forti e marcate sono una minaccia per l’umanità. Non si possono vedere persone che hanno grandi ricchezze e altre che non hanno nulla. Inoltre, trovo drammatico il fatto che la povertà non tocca solo il ceto basso, ma anche persone che hanno studiato. Quando vedo ricercatori bravissimi che resistono a lavorare nel nostro paese guadagnando 900 euro, rimango perplesso. Dove stiamo andando? Quel filo di cui parlava Giovanni XXIII spero che si ritessa per confrontarci, discutere e trovare delle soluzioni serie. E urgenti. Non credo nelle soluzioni miracolistiche come sognava la mia generazione con la rivoluzione. Però, se riflettiamo e guardiamo alla storia dell’umanità, mi chiedo: se non avessimo avuto il Cristo, forse, non avremmo fatto una serie di ragionamenti sull’uguaglianza. Credo nel tentativo di cambiare gli uomini, possibilmente, senza violenza, ma con il richiamo ai valori della vita. Bisogna ritornare a dei toni pacati, a una certa educazione nelle relazioni. Oggi ci sono una forte contrapposizione e un’imperante maleducazione a tutti i livelli».

Quali sono state le sue maggiori figure di riferimento, nel mondo della comunicazione? E cosa le hanno insegnato?

«Ricordo Montanelli, che mi definiva il suo “miglior nemico”. Anche se stavamo su posizioni diverse, le nostre relazioni sono sempre state di grande rispetto».

Tornando alla domanda iniziale – Paolo di Tarso e la comunicazione – lungo questi decenni come le sembra che sia mutato il rapporto della Chiesa con i mass media?

«Ha avuto dei momenti di alternanza. Anche il rapporto dei media con Giovanni Paolo II è stato straordinario. Il suo testo, Non aver paura, io l’ho fatto leggere ai miei redattori. Ne abbiamo tirato fuori una discussione su Liberazione, giornale da me diretto in quel periodo. Ho capito che forte era la relazione che questo papa polacco aveva saputo stabilire con i media. È stato un uomo che parlava come avrebbe fatto il Cristo, o un uomo libero. Questo suo incitamento a non aver paura sapeva dare speranza».

E in quali direzioni conviene lavorare maggiormente?

«Recentemente ho fatto un’esperienza con le suore di clausura insieme ad altri colleghi giornalisti. Abbiamo parlato con loro. Io ho visto in questo incontro la possibilità di aprirsi al nuovo, di usare i mezzi di comunicazione. Ho visto una suora usare il computer meglio di me. C’è un balzo grande di cambiamento. La Chiesa dovrebbe incoraggiare queste iniziative: incontrarsi con semplicità, con meno formalismo, come hanno fatto queste suore, è la chiave per ricreare un ambiente familiare. È questo che avvicina gli uomini: la fraternità. Dobbiamo far capire che stiamo insieme per cercare di trovare una strada comune per risolvere le urgenze del nostro tempo. Credo che le contrapposizioni radicali non servano. In quella circostanza mi sono sentito un loro fratello e ho avvertito quanto il mondo potrebbe essere bello, se l’uomo avesse la volontà e il coraggio di stringere la mano all’altro. La Chiesa dovrebbe fare di più per cercare di creare un dialogo serio e costruttivo e smussare delle situazioni esplosive».

Quali riflessioni le suscita san Paolo?

«Senza la volontà di quest’uomo il vangelo non sarebbe stato così conosciuto. Come lui ha saputo divulgare, anche noi dobbiamo irradiare un messaggio positivo. Paolo è portatore del fatto. Cristo è un fatto, e ci dice che l’uomo dovrebbe avere più coraggio. Questa figura mi ha sempre affascinato. A casa, nel mio studio, ho il crocifisso, perché il suo messaggio è straordinario e l’ho sempre sentito vicino, anche se non ho il dono della fede».

La comunicazione può aiutare il nostro mondo a ritrovare fiducia?

«Sì. Però è necessaria una condizione: la comunicazione non deve tradire la sua missione. Questo significa che deve aiutare tutti gli uomini del globo a conoscersi a vicenda, quindi a mostrare la storia e i costumi di tutti ipopoli. Solo dalla conoscenza nasce il reciproco
rispetto. Se, invece, la comunicazione serve solo a dire che una razza è migliore di un’altra, o a far prevalere una voce su tutte le altre, allora porta alle peggiori conseguenze. Oggi una corretta informazione sarebbe davvero necessaria. E la strada che potrebbe aiutarci ad affrontare la questione della convivenza civile. In questo passaggio epocale, segnato da un grande travaglio, questo è il nodo centrale, è la sfida del nostro tempo».

Cosa si dovrebbe cambiare nel nostro modo di far televisione?

«Nell’ultimo ventennio la televisione italiana non ha portato buoni frutti. Le prime trasmissioni sono servite molto per spezzare i blocchi contrapposti e far cadere i muri. Poi con il mercato sono prevalse altre logiche. Ha vinto l’egoismo e l’edonismo, per cui vince il più bello, il più potente, il più ricco. I disvalori sono diventati dei valori che hanno creato turbamento e confusione. Ricordo le famiglie davanti alla tv. Questo mezzo le riuniva e dopo aver visto i programmi ne nascevano delle discussioni. Ha aiutato molto il nostro Paese a progredire facendo conoscere la nostra lingua o il nostro paese. Pur vivendo in una penisola, molte persone hanno visto per la prima volta il mare attraverso la tv o hanno avuto la possibilità di conoscere il mondo. Questo è un aspetto di cui è necessario tener conto per capire la potenza del mezzo, che se usato bene, può portare grandi benefici. Oggi, invece, ha creato ghettizzazione e isolamento con l’assorbimento di modelli di vita che non portano a nulla».

Quale il compito delle nuove generazioni?

«Devono attuare una rivoluzione  profonda della mentalità. La televisione può, di nuovo, creare unità e non ulteriori frammentazioni. Anche persone con idee diverse devono ragionare insieme. Per questo credo che i giovani siano investiti di un incarico nuovo ed importante. Ricordo un libro del cardinal Martini – Il lembo del mantello – che dava consigli e idee sulla tv. Quando ero direttore del tg3 lo regalai a tutti i redattori con una mia dedica e poi su questo testo facemmo un’assemblea di redazione. Il patrimonio umano c’è, importante è non perderlo».

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ZENIT Staff

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