ROMA, sabato, 15 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell’intervento pronunciato dal prof. Francesco Paolo Casavola, docente di Storia del Diritto romano e Presidente emerito della Corte costituzionale, in occasione del Convegno dal titolo “La Costituzione Repubblicana. Fondamenti, principali e valori, tra attualità e prospettive”, tenutosi a Roma dal 13 al 15 novembre e organizzato dall’Ufficio per la pastorale universitaria del Vicariato diocesano.
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Il sessantesimo compleanno della Costituzione repubblicana cade in una congiuntura particolarmente significativa della nostra vita politica. Si stanno costituendo partiti nuovi, il più possibile lontani dai loro antenati ideologici, e che esprimano i bisogni degli italiani delle nuove generazioni. Niente è rimasto della società di metà novecento. Le classi, la lotta di classe, l’interclassismo, giustificavano i partiti di allora, liberale, comunista, democratico-cristiano. Oggi l’individualismo di massa, come presago già vide Giuseppe Capograssi, ha originato la modernità liquida, secondo la formula suggestiva di Zygmunt Bauman. Lo scenario tecnologico non ha come luogo simbolico la fabbrica, ma l’ufficio, il laboratorio, la banca informatizzata, l’ospedale, gli studi dei media e il loro indotto pubblicitario. Non contano più operai e contadini, dinanzi agli innumerevoli addetti ai servizi del territorio. Le professioni intellettuali non sono più soltanto quelle della tradizione, dei legali, medici, ingegneri, insegnanti, ma delle tante e crescenti specializzazioni richieste dalle innovazioni tecnoscientifiche e di una economia di intermediazioni e di interdipendenze.
Il mercato del lavoro, per corrispondere ai nuovi aspetti tecnologici delle imprese che hanno sempre meno bisogno di addetti, adotta forme di rapporti flessibili e precarie, che non danno ai giovani, tolti dalla disoccupazione totale, nessuna certezza di futuro per progettare la propria vita. La crisi del modello familiare, definito dalla Costituzione società naturale fondata sul matrimonio, dà luogo ad unioni di fatto, cui si vorrebbero aggiungere convivenze omosessuali. La scuola va incontro ciclicamente a riforme incerte, tra preparazione culturale di base e formazione professionale, e l’università non è da meno, nell’affanno di una competizione su scale internazionale. La presenza sempre più estesa di immigrati provenienti da altre civilizzazioni pone i problemi di una società multiculturale, multietnica, multireligiosa. La laicità dello Stato, pur affermata dalla Corte costituzionale non come estraneità e indifferenza rispetto alla religione, ma come rispetto della libertà di coscienza in regime di pluralismo confessionale, ivi compresa la miscredenza, è declinata da gruppi e movimenti come ostilità al cattolicesimo o più integralmente al fenomeno religioso. Il progresso delle scienze biologiche e della medicina rende acute le questioni etiche sull’inizio e sulla fine della vita.
La partecipazione democratica dei cittadini ai riti referendari ed elettorali dovrebbe essere accompagnata da un costante rinnovamento della rappresentanza parlamentare e delle amministrazioni locali e non essere condizionata da propaganda e da un uso strumentale dei media. La percezione diffusa di tanti mutamenti intervenuti nel corso di sessant’anni, cui non sono tempestivamente seguiti i provvedimenti di organiche riforme, ha generato la rappresentazione di una Costituzione vecchia, che va cambiata. Si sono susseguite tre commissioni bicamerali nella IX, XI, XIII legislatura, per affrontare il tema di riforme costituzionali. L’unica modifica di vasto impianto è stata quella del titolo V della Costituzione, che regola il rapporto tra Regioni e Stato. Il tentativo della XIV legislatura di una più ampia riforma è stato sonoramente bocciato dal referendum popolare. Non intervenendo una revisione complessiva della Carta, i media hanno divulgato una numerazione di Prima, Seconda ed ora anche di Terza Repubblica. Alla prima, dei padri fondatori, sarebbe seguita quella della decapitazione della classe politica finita nei processi giudiziari di Tangentopoli. Da allora si è parlato di transizione ad una diversa Costituzione. E non essendo giunti ad alcun approdo progetti e programmi dell’ormai longevo dibattito riformistico, si comincia a parlare di Terza Repubblica, non nata neppure la Seconda. In realtà la cultura costituzionalistica in Italia non ha mai avuto fortuna, né tra i cittadini, né nel ceto politico. Fu questa l’osservazione di Enrico De Nicola, nel discorso inaugurale della prima seduta pubblica della Corte costituzionale nel 1956, di cui egli fu il primo presidente. Provveda chi di dovere a diffondere la conoscenza della Costituzione, egli disse, prima che sia troppo tardi, perchè troppo tardi se può essere irrimediabile e grave per la vita di un individuo, lo è di più per quella di un popolo. Purtroppo di quel monito severo non si è tenuto il minimo conto. Noi continuiamo a non conoscere la nostra Costituzione, né nel suo testo, né nella interpretazione della giurisprudenza della Corte costituzionale, né nei modi con cui si discusse nell’Assemblea costituente e nelle sottocommissioni che elaborano il progetto. Si sente disinvoltamente dire “cambiamo la Costituzione”, come se cambiare fosse equivalente a riformare.
Cambiare Costituzione presuppone caducare quella vigente. E una Costituzione cada quando un regime politico cade, con un colpo di Stato o una rivoluzione o una guerra civile o una disfatta militare. Oppure quando la forma di Stato muta da monarchia a repubblica, da Stato unitario a Stato federale, o muta la forma di governo, da parlamentare a presidenziale, o si instaura una dittatura. Non siamo dinanzi a nessuna di queste eventualità. E allora si chiama a soccorso la obsolescenza di una Costituzione fatta quando l’Italia era per due terzi una nazione rurale, mentre oggi è uno dei paesi più industrializzati del mondo. Che dovremmo dire, allora, della Costituzione degli Stati Uniti d’America, del 1787, di tempi in cui si navigava in velieri e si viaggiava su diligenze a cavallo? Uno dei padri del Codice Napoleone diceva che le leggi hanno il diritto di diventare antiche. Figurarsi le costituzioni! Gli Stati che cambiano frequentemente costituzione rivelano società e popoli in crisi da cui non riescono a uscire. Cominciamo con conoscere meglio la nostra Costituzione, per avere con chiarezza il quadro delle sue necessarie modificazioni. Non si toccheranno i principi, a cominciare dal primo, che definisce la Repubblica fondata sul lavoro. C’è chi ha osato considerarlo come il relitto di una ideologia classista di stampo sovietico, ignorando la discussione nella sottocommissione costituente, mirante ad escludere una anche pallida eco di tale significato.
La tradizione liberale un secolo prima avrebbe magari citato la proprietà, ma un socialista democratico come Saragat ricordava che la proprietà divide, mentre il lavoro è un gesto, un’idea che unisce. Su questo principio di unità dei cittadini, l’Italia esce dall’età dei conflitti sociali, e diventa la democrazia dei diritti sociali. Il secondo principio, non per importanza ma per tempo storico del suo riconoscimento, è quello personalista, per cui gli esseri umani e le formazioni sociali in cui si sviluppa la personalità umana, sono titolari di diritti inviolabili, preesistenti allo Stato. Il terzo, quello di uguaglianza dei cittadini, senza discriminazione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali, esce dal limite del costituzionalismo liberale, dell’eguaglianza formale dinanzi alla legge (la loi c’est la meme pour tous delle costituzioni della Francia rivoluzionaria), per entrare nella dinamica di uno Stato sociale di diritto, in cui la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini. E se oltre i cittad ini, tutti gli esseri umani hanno riconoscimento e protezione dei loro diritti, tutti hanno doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. I buoni frutti del solidarismo cattolico, dell’egualitarismo liberale, del socialismo europeo compongono una carta di valori, prima che di precetti. E sempre restando all’interno dei primi dodici articoli che si intitolano Principi fondamentali, incontriamo la estensione del lavoro a comprendere ogni attività o funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società; la natura unitaria della Repubblica, che pur si articola nelle autonomie locali; la tutela delle minoranze linguistiche; la laicità dello Stato; la libertà della cultura e della ricerca scientifica e tecnica; la tutela dell’ambiente e del patrimonio storico e artistico della Nazione; l’asilo politico allo straniero; il repudio della guerra, e le limitazioni della sovranità per un ordinamento che assicuri pace giustizia fra le Nazioni. Che cosa si potrà mai mutare di queste fondamenta della Repubblica? Per esse la nostra Costituzione appare a politici e studiosi stranieri come una delle Costituzioni più moderne e sagge del nostro tempo. E salvo qualche ritocco, per gli altri quattro titoli in cui è ordinata la Parte prima, che regola diritti e doveri dei cittadini, si può condividere lo stesso giudizio di piena attualità del nostro testo costituzionale.
Altro e diverso discorso va fatto per la parte seconda sull’ordinamento della Repubblica. La forma di governo scelta dai costituenti fu quella della Repubblica parlamentare e non presidenziale. Ma il parlamento bicamerale perfetto, cioè con due camere che hanno la stessa rappresentatività e gli stessi poteri, non fu l’idea guida dei padri fondatori, sì invece una soluzione di compromesso. Le due camere riflettevano l’antagonismo storico di re e Popolo, il Senato camera alta dei dignitari nominati dal monarca, la Camera dei deputati la camera bassa degli eletti dal popolo. Il passaggio dallo Stato monarchico allo Stato repubblicano avrebbe dovuto comportare, per quello spirito geometrico che non assiste sempre la razionalità dei processi storici, la scelta per un parlamento monocamerale. Era questa la determinazione della sinistra social-comunista, ma si temeva che ne nascesse un governo assembleare. Il cattolico Costantino Mortati progettò allora una seconda camera delle cosiddette aristocrazie tecniche, i cui componenti fossero eletti in categorie che esprimessero particolari requisiti di meriti e di competenze (presidenti della Repubblica o membri del governo, o di consigli regionali e comunali, professori d’università, magistrati e funzionari, membri elettivi di consigli superiori dell’amministrazione pubblica, o di ordini professionali o di camere di commercio o di organizzazioni sindacali o di imprese private).
Questa idea mortatiana avrebbe dato risposta alla esigenza di superare lo schema della rappresentanza indifferenziata dei cittadini, una testa un voto, per realizzare anche una rappresentanza delle formazioni sociali, che si sarebbe sempre potuta perfezionare, aggiornandola sulla evoluzione della società. Invece prevalse il disegno conservatore di una seconda camera identica alla prima, salvo che nei numeri, i senatori metà esatta, 315, dei 630 deputati, con l’effetto di mandare i testi legislativi in fase di confezionamento dall’una camera all’altra, con l’ovvio effetto di paralizzare o rendere tardivo e alterato il funzionamento del potere legislativo, e di costringere il governo ad usare ed abusare dello strumento, peraltro caduco e disorganico dei decreti-legge. Una riforma radicale consisterebbe nella pura e semplice eliminazione del Senato. Ma invece se ne ventila la trasformazione in una Camera delle Regioni, con una fantasia di ingegneria istituzionale che finora ha partorito mostri.
Il secondo nodo che dovrebbe essere sciolto dal riformatore costituzionale è quello del governo, o meglio del Capo del governo. Su questo punto i Padri costituenti lavorarono con l’incubo della ventennale dittatura fascista, appena abbattuta. Si volle un Presidente del Consiglio, secondo la metafora allora usata del direttore d’orchestra, alla mercè di delegazioni di ministri scelti dalle segreterie dei partiti, coalizzati nel governo, e che avevano convenuto la fiducia. La scelta parlamentare e la nomina da parte del Presidente della Repubblica erano nulla più che un rito. Un governo simile non può che essere debole. La durata meno che infra-annale dei governi repubblicani si deve a questa loro dipendenza da organi extracostituzionali, quali le segreterie dei partiti.
Restituire forza all’esecutivo significa indicazione del presidente del consiglio da parte dei cittadini elettori, nomina e revoca dei ministri prerogativa del capo del governo sulla base di un rapporto fiduciario, che fa della collegialità ministeriale un organismo coeso, nella piena responsabilità di chi lo dirige. Certo, c’è tanto da rivisitare e rivedere nell’ordinamento della Repubblica. La giustizia, ad esempio, è un altro caso del divario tra progetti elaborati in sottocommissione e il risultato del testo definitivo. Piero Calamandrei, Giovanni Leone e Gennaro Patricolo, presentarono tre distinti progetti, che se fossero stati adeguatamente combinati ci avrebbero risparmiato tante difficoltà del nostro sistema giustizia. A cominciare da una unità strutturale di giudici civili, penali, amministrativi, contabili, militari, della loro separazione strutturale e non solo funzionale dal pubblico ministero, per finire alla eliminazione del Ministro di giustizia, sostituito nei residuali compiti amministrativi da un Consiglio superiore della Magistratura, meglio e più autorevolmente definito come autogoverno di un unitario sistema di ogni giurisdizione.
Va da sè che, quando non si realizzano tempestivamente, le riforme premono con urgenze congiunturali e non epocali. I rapporti tra governo nazionale e governi locali rispondono alle prime, meno alle seconde. Il progresso delle tecnologie pone il problema se la frammentazione delle competenze territoriali corrisponda od invece ostacoli l’economia dei grandi bisogni e la realizzazione di infrastrutture che dall’intero paese si proiettano in Europa e nel mondo. In più la procedura di revisione, prevista nell’articolo 138 della Costituzione, era stata immaginata per correzioni di singoli articoli, dei loro sintagmi, non certo di intere parti organiche. Il tema metodologico, del come tecnicamente riformare il testo costituzionale, si affianca a quello sostanziale del come politicamente ammodernarlo. E non per un futuro breve, ma per quante generazioni, ancora venture, cui dovremmo avere l’ambizione di lasciare una Costituzione ancora migliore di quella che abbiamo ricevuta dai nostri padri.