MADRID, venerdì, 7 novembre 2008 (ZENIT.org).- Il 5 novembre scorso, il giudice tutelare del Tribunale di Modena, Guido Stanzani, ha pronunciato un decreto con il quale ha accolto la richiesta di un libero professionista modenese, di circa 50 anni, ancora in ottime condizioni di salute, di nominare la moglie “proprio Amministratore di sostegno”, e cioè “garante delle sue volontà di fine vita”, “in caso di malattia terminale o irreversibile”.
Nel commentare a ZENIT questo provvedimento, il prof. Alberto Gambino, Ordinario di Diritto privato all’Università Europea di Roma, ha detto che “secondo il Codice civile italiano, l’Amministrazione di sostegno è una misura di ‘protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia’, con la quale si prevede l’assistenza a chi non può provvedere ai propri interessi (Libro I – Titolo XII)”.
“Come ancora oggi si insegna nella nostra scuola primaria – ha continuato –, l’espressione ‘proteggere’ significa ‘fare da riparo’, ‘difendere’, e la parola persona indica l’essere umano”.
Dalle cronache di questi giorni, invece, “emerge che il giudice tutelare del Tribunale di Modena sembra ritenere che l’Amministratore di sostegno possa autorizzare scelte di impedimento alla cura o al sostentamento della persona”.
A questo proposito, il prof. Gambino ha commentato che “l’istituto dell’Amministrazione di sostegno – e, nel diritto, ‘amministrazione’ significa ‘l’esercizio di affari propri o altrui’ – introdotto per tutelare e assistere gli incapaci finisce così per piegarsi all’obiettivo di rendere la vita e la salute delle persone quali beni giuridici disponibili”.
“Ciò che lascia poi l’amaro in bocca – ha proseguito – è che questa inaccettabile interpretazione tradisce lo spirito dell’istituto dell’Amministrazione di sostegno, alla cui promozione – come ben ricorderà il collega prof. Paolo Cendon, ispiratore delle norme – hanno partecipato giuristi di diverse opzioni culturali, credenti e non credenti, nella chiara consapevolezza che si trattasse di un Istituto, appunto, di sostegno delle persone in situazioni di debolezza e non uno strumento di legittimazione di pratiche di abbandono terapeutico”.
“Certamente – ha poi concluso – anche questa decisione è figlia dello stesso humus culturale del pur solitario orientamento giurisprudenziale relativo alla vicenda Englaro, dove al centro delle opzioni ordinamentali non c’è più la persona, ma la sua volontà, nel caso addirittura presunta e senza limite alcuno”.