Identità cristiana e bene comune

ASSISI, sabato, 18 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervento tenuto da Salvatore Martinez, Presidente nazionale del Rinnovamento nello Spirito, in occasione del Seminario nazionale di “Retinopera” che si è svolto ad Assisi, dal 26 al 28 settembre, sul tema “Bene comune, povertà emergenti e ricchezze negate”.

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Vi saluto cordialmente ringraziandovi per l’attenzione che vorrete prestarmi.

Nella nota pastorale della CEI, seguente al IV Convegno Nazionale Ecclesiale di Verona, si legge: «Occorre creare nelle comunità cristiane luoghi in cui i laici possano prendere la parola, comunicare la loro esperienza di vita, le loro domande, le loro scoperte, i loro pensieri sull’ essere cristiani nel mondo» (n. 26).

Credo che in queste espressioni sia racchiuso il senso, l’attualità e la profezia di Rete in Opera: un luogo prepolitico, che ha a cuore la causa cattolica, uno spazio in cui sinceramente pensare, ragionare, purificare, raffinare il nostro essere cristiani nel mondo alla luce della dottrina sociale della Chiesa. Senza rivendicazioni, primazie, o egoismi autoreferenziali.

Noi ci chiediamo come la nostra fede possa determinare una cultura che ponga nel giusto equilibrio la giustizia, la misericordia, le leggi e i diritti umani, la solidarietà, in definitiva tutto ciò che ispira, fonda e rivela la nozione di “bene comune”.

La cifra perché questo avvenga è l’amicizia. L’amicizia che ci lega a Dio; l’amicizia che ci lega fra noi; l’amicizia che ci lega agli uomini del nostro tempo. Aristotele, nella sua “Etica Nicomachea”, ben lo affermava: «Il più alto punto della giustizia sembra appartenere alla natura dell’amicizia».

Ebbene la natura della nostra amicizia è straordinaria, perché divina. Si dice “cristiana” perché attesta un bene, quel bene che Cristo ci ha comandato di fare e di insegnare.

Qui ad Assisi rispondiamo ad un dovere che incombe su noi laici cristiani, un dovere antico quanto il Vangelo che ci ha generati e che qui ci raduna sotto lo sguardo benevolo del nostro patrono d’Italia, S. Francesco. Ben lo esprime lo stesso Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa: “La dottrina sociale non è per la Chiesa un privilegio, una digressione, una convenienza o un’ingerenza: è un suo diritto evangelizzare il sociale, ossia far risuonare la parola liberante del Vangelo nel complesso mondo delle giurisprudenza, della cultura, delle comunicazioni sociali, in cui vive l’uomo. Questo diritto è al contempo un dovere, perché la Chiesa non vi può rinunciare senza smentire se stessa e la sua fedeltà a Cristo: «Guai a me se non predicassi il Vangelo!» (nn. 70-71).

Ricorre quest’anno il ventesimo della pubblicazione dell’esortazione post sinodale sui laici Christifideles laici; un documento che può ancora ispirare efficacemente il nostro agire nel segno di quell’“indole secolare” che genera la nostra testimonianza del Vangelo nel mondo. Ebbene, proprio in questo documento, si legge una definizione che fu di Pio XII: «I fedeli, e più precisamente i laici, si trovano nella linea più avanzata della vita della Chiesa; per loro la Chiesa è il principio vitale della società umana. Perciò essi, specialmente essi, debbono avere una sempre più chiara consapevolezza, non soltanto di appartenere alla Chiesa, ma di essere la Chiesa» (n. 9).

Dunque, i laici sono “la linea più avanzata della vita della Chiesa”. Bello a dirsi; arduo a darsi! Ma incoraggia sapere i laici cristiani possono essere la Chiesa che genera una speranza creatrice nel mondo con le intelligenze, le buone prassi, le capacità professionali di cui sono portatori; la Chiesa che evangelizza il sociale infondendo nel cuore degli uomini, specie dei più deboli e dimenticati, la liberazione e la giustizia che provengono dal Vangelo. Così, solo così – è ancora il Compendio della Dottrina Sociale (n.63) a ricordarcelo – sarà costruita «una società a misura dell’uomo, perché a misura di Cristo; una città dell’uomo più umana, perché più conforme al Regno di Dio».

C’è, talvolta, tra noi, una sorta di complesso d’inferiorità dinanzi all’ineluttabile male che si accanisce sulla storia, un’inquietudine che ci assale dinanzi al tentativo corrente di privare il cristianesimo di ogni rilievo pubblico. Si vorrebbe una sorta di cristianesimo svilito, diluito, anonimo, una chiesuola in cui riparare per trovare protezione.

Un’inquietudine che io ritengo salutare, che dovrebbe svegliare dal sonno, dal torpore spirituale che spesso alligna tra di noi. Ecco perché è imprescindibile che la parola “bene comune” si coniughi con “identità cristiana”. Potrà mai una identità cristiana mondanizzata, relativizzata, perbenizzata, generare il “bene comune”, così come esige la Tradizione cristiana dei martiri e dei santi che ci hanno preceduto?

La nostra fede non è mondana, ma è per il mondo. È coinvolta con il mondo e deve coinvolgere il mondo.

Ebbene, come ha scritto un celebre martire cristiano evangelico del Novecento, Dietrich Bonhoeffer, «noi cristiani dobbiamo tornare all’aria aperta; dobbiamo tornare all’aria aperta del confronto spirituale con il mondo» (in “Resistenza e Resa”).

Il prossimo anno ricorre il cinquantesimo della morte del servo di Dio don Luigi Sturzo e il novantesimo anno della nascita del Partito Popolare Italiano. A don Luigi Sturzo la Provvidenza ha voluto legarmi, assegnandomi la grazia di ereditare la sua villa rurale, la proprietà dove la famiglia Sturzo si trasferiva nei mesi estivi, a pochi chilometri dal centro di Caltagirone. Nel segno dei grandi ideali sturziani e del cattolicesimo di popolo – non delle èlites, né delle minoranze – di cui Sturzo si fece interprete, proprio in questo Fondo rurale sta sorgendo la prima cittadella dedicata ai detenuti e alle loro famiglie, un’Opera di redenzione sociale che spero possiate un giorno visitare.

Dal suo esilio londinese, nel giugno 1938, giudicando le rivoluzioni che la storia coeva aveva drammaticamente registrato (la socialista, la nazi-fascista, la messicana), così si esprimeva nel suo scritto “The preservation of the Faith”: «Per noi, la prima, vera, unica rivoluzione fu quella del cristianesimo. Cristo portò in terra un Vangelo che ripudia qualsiasi pervertimento e oppressione umana, qualsiasi predomino del mondo sullo spirito. La vera rivoluzione comincia con una negazione spirituale del male e una spirituale affermazione del bene. Il nostro mondo è un mondo che deve essere creato a nuovo con fiducia nel pensiero cristiano, il quale è sempre vivo e sempre potente per le trasformazioni».

Un’analisi efficacissima, irrinunciabile, basata sulla singolare convergenza fra il Cristianesimo e ciò che è autenticamente umano. In un’altra opera dello stesso periodo londinese don Sturzo scriverà: «L’errore moderno è consistito nel separare e contrapporre Umanesimo e Cristianesimo: dell’Umanesimo si è fatto un’entità divina; della religione cristiana un affare privato, un affare di coscienza o anche una setta, una chiesuola di cui si occupano solo i preti e i bigotti. Bisogna ristabilire l’unione e la sintesi dell’umano e del cristiano; il cristiano è nel mondo secondo i valori religiosi; l’umano deve essere penetrato di Cri­stianesimo. Ecco perché è un errore combattere il nazismo soltan­to in nome della religione cristiana. Bisogna contemporaneamente combatterlo in nome dei valori umani contenuti nella libertà in­tegrale e in nome della religione cristiana che regola questi valori e li santifica per dei fini più alti» (in “Miscellanea londinese”, vol. III).

È questa una splendida traduzione dell’espressione “bene comune”.

Ogni epoca storica vive il tempo della crisi. Qualcuno dice: “Mala tempora currunt”. I tempi sono difficili. Ma non sono mai stati facili e mai lo saranno! «Vivete bene il tempo e lo cambierete; e se lo cambierete non avrete più da lamentarvi» (in “Discorsi” 311, 8,8) ricordava Sant’Agostino alla generazione di cristiani del suo tempo.

Rifare il tessuto cristiano della società umana è la missione della Chiesa in questo momento storico, «meravigliosame
nte arduo»,
come lo ha definito il Cardinale Presidente della CEI Angelo Bagnasco nella Prolusione all’Assemblea Generale dei Vescovi italiani (26.05.2008). Un momento storico in cui sembra sempre più evidente lo smarrimento dell’originalità cristiana. Del resto il cuore e l’intelligenza del Pontificato di Benedetto XVI, nei tre anni trascorsi, si attestano chiaramente proprio sulla riaffermazione ragionevole e vitale della nostra fede e identità cristiana.

Per rifare il tessuto cristiano della società a noi laici cristiani è chiesto, senza deroghe, di saper superare la frattura tra Vangelo e vita che permane nelle nostre esistenze pubbliche e private, ricomponendo così, proprio nella nostra quotidiana attività, quell’unità di una vita che nel Vangelo trova ispirazione e forza per realizzarsi.

A tal proposito il Concilio Vaticano II ha affermato: «Il distacco che si constata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo» (in “Gaudium et Spes”, n. 43).

È incredibile assistere alla domanda di molti cristiani del nostro tempo che si chiedono: “ma cosa c’entra la fede con la mia vita, con la mia vita pubblica, con i miei principi morali, con le mie scelte familiari”?

Vorrei che a rispondere fosse quel grande genio del Novecento che è stato il servo di Dio Paolo VI, che patì i travagli di un’epoca consumandosi nella fatica di trovare adesione convinta alla sua lettura della storia. Nella Enciclica sull’evangelizzazione nel mondo contemporaneo, “Evangelii nuntiandi”, Paolo VI scrive: «È indispensabile raggiungere e quasi sconvolgere, mediante la forza del Vangelo, i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la parola di Dio e con il disegno di salvezza» (n. 19).

Un quadro dettagliatissimo ed esigentissimo al contempo. Ma una sfida ineludibile. Di questa evidenza si è fatto interprete anche Papa Benedetto XVI, in occasione del Viaggio negli Stati Uniti dell’aprile scorso. Così si è pronunziato il 18 aprile, parlando ai Vescovi degli Stati Uniti: «È forse coerente professare la nostra fede la domenica e poi, lungo la settimana, promuovere pratiche di affari o procedure mediche contrarie a tale fede? È forse coerente per cattolici praticanti ignorare o sfruttare i poveri e gli emarginati, promuovere comportamenti sessuali contrari all’insegnamento morale cattolico, o adottare posizioni che contraddicono il diritto alla vita di ogni essere umano dal concepimento alla morte naturale? Occorre resistere ad ogni tendenza a considerare la religione come un fatto privato. Solo quando la fede permea ogni aspetto della vita, i cristiani diventano davvero aperti alla potenza trasformatrice del Vangelo».

Questa nostra fede genera un’identità che personifica, non che aliena. Genera un corpo sociale, umano e divino insieme, che è il nostro essere la Chiesa nel mondo.

Definire la nostra identità “cristiana” non significa appena qualificarla, aggettivarla, ma sostanziarla, personificarla nell’esigente legge dell’incarnazione. Significa considerarla racchiusa in un’origine e in una meta già segnate, perché di origine divine; un principio e un fine che, proprio perché divini, fanno della nostra vita terrena una partecipazione al primato del Figlio di Dio nella storia. Altro che remore, ripensamenti, fallimenti annunciati. Nessuno potrà mai sbarazzarsi di noi, perché nessuno potrà mai sbarazzarsi di Dio! La nostra è un’identità “segnata e significata”, terribilmente segnata e significata. Può essere accolta o rifiutata, così da renderci partecipi dello stesso destino di Cristo, ma non potrà essere cancellata dalla storia, perché Dio resisterebbe ancora nei cuori.

Il Cardinale Camillo Ruini, sempre lucido e lungimirante nelle sue analisi, nel suo volumetto “Chiesa Contestata. 10 Tesi a sostegno del Cattolicesimo”, commenta: “Si pongono per noi, con forza rinnovata, il tema e la sfida dell’identità cristiana, culturale e comunitaria, non solo a livello italiano, e nemmeno esclusivamente europeo. La religione cristiana ha un costitutivo dinamismo missionario e universalistico, che però, per essere fedele alla propria indole, deve essere sviluppato non con la forza, ma per le vie dell’amore e della libertà. Sembra che soltanto il recupero di questa identità profonda possa, sul lungo periodo, evitare sia la decadenza della nostra civiltà, sia la marginalità del cristianesimo rispetto al divenire della storia” (pagg. 119-120).

Ebbene, guardiamo per un istante come “il tema e la sfida dell’identità cristiana”, per riprendere l’espressione ruiniana, sono considerati dai pensatori del nostro tempo. Scomodiamone uno tra tutti, uno dei sociologi più in voga del momento, Zygmunt Bauman. Intervistato da Benedetto Vecchi, proprio sul tema dell’identità, lo studioso polacco afferma: «L’identità ci si rivela unicamente come qualcosa che va inventato, piuttosto che scoperto, qualcosa che è ancora necessario costruire da zero» (in “Intervista sull’identità”, pag. 13).

Potremo mai accettare una simile definizione? Ma essa è in linea con il nostro tempo. Si pensi alla proposta di legge che giace in Parlamento, in forza della quale sarebbe permesso ad ogni cittadino di darsi il cognome che vuole. Ed ecco all’“anno zero”! Non si sarebbe più in alcuna relazione parentale con il passato, né “figliati” da quelle memorie – cristiana, familiare, sociale, affettiva – di cui ogni uomo è chiamato a farsi custode e interprete nello spazio e nel tempo che gli è dato di vivere. Ciascuno avrebbe il potere di inventarsi la vita che vuole, di assegnarsi il destino che vuole.

Quanto va accadendo ci dice che si può parlare d’identità in due modi: o in termini “speculativi” o in termini “contemplativi”. In termini speculativi, per la sociologia corrente, l’identità è un problema. Più la vita si fa liquida, più le radici vengono estirpate, più le memorie vengono adulterate o cancellate e più l’uomo relativizzato diventa un serio problema a se stesso.

Per noi, identità, è prima di tutto “identificazione”. Non qualcosa che va inventato, come pensa Bauman, semmai Qualcuno che va cercato, scoperto, accolto, amato, proposto. Ecco perché un cristiano sa che solo contemplando diviene ciò che deve essere. Solo assimilando la volontà di Dio, espressa nelle Sacre Scritture, trova e riceve la sua vera identità. Solo amando e servendo l’uomo, il cristiano identifica e riflette l’immagine del Dio amante di ogni uomo.

Scrisse un giorno Paul Claudel: «I cristiani nutrono un grande rispetto per la Bibbia. E lo dimostrano standone il più possibile lontani».

Questa idea “identità-identificazione” è pregnante nel Nuovo Testamento, in modo speciale in S. Paolo. A conferma, mi limito ad una tra le tante citazioni bibliche che qui potrebbero fiorire, così da onorare il più grande laico evangelizzatore della storia, nell’anno a lui dedicato. Questo scrive nella seconda lettera ai Corinti: «E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3, 18).

A viso scoperto, senza vergogna di dirsi cristiani, noi riproduciamo l’identità di Cristo. «Io, ma non più io» ci ricordava Benedetto XVI a Verona. E aggiungeva: «È stata così cambiata la mia identità essenziale ed io continuo ad esistere soltanto in questo cambiamento» (Discorso ai partecipanti al IV Convegno Ecclesiale Nazionale, 18.10.2006).

La fede non s’inventa, né si manipola e non è vera fede se non libera profondamente, pienamente, la nostra libertà umana.

Nei suoi primi inizi, prima che ad Antiochia la parola “cristiani” venisse spregiativamente coniata, la pratica della fede in Gesù si chiamava semplicemente “la via”. «Io ho perseguitato questa via» dirà S. Paolo in una sua difesa (cf At 22, 4). Non c’è identità cristiana senza una fede umilmente confessata, vitalmente praticata, permanentemente perseguitata. La fede non è una teoria; è una via, quindi una prassi, meglio un insieme di buone prassi.

La fede deve suscitare profonde convinzioni con un contenuto pratico immediato, un bene di tutti, per tutti, che abbracci tutto l’uomo, che includa tutti gli uomini: ecco il bene comune.

Pertanto la fede include la morale, perché non è un insieme di generici ideali. La fede offre indicazioni concrete per la vita umana; proprio attraverso la loro morale i cristiani si differenziavano dagli altri nel mondo antico. In tal modo la loro fede divenne visibile come qualcosa di nuovo, una realtà inconfondibile, attraente, contagiosa.

Ha scritto il card. J. Ratzinger: «Un cristianesimo che non fosse più un cammino comune, ma annunciasse ormai solo ideali indistinti, non sarebbe più il cristianesimo di Gesù Cristo e dei suoi discepoli immediati» (in “La via della fede”, pagg. 81-82).

Ogni atto di fede implica l’adesione di tutta la persona; è sempre una scelta di vita precisa, determinata, definitiva, quindi non è compatibile con il pluralismo morale come una generica buona intenzione.

Il bene comune nasce dalla capacità nostra di rendere socialmente visibile il contenuto morale della nostra fede. Finché non sapremo rimpatriare questa verità, noi continueremo a permettere la canonizzazione del relativismo etico.

Bisogna rendere credibile Dio in questo mondo. Ogni oscuramento o tradimento del primato di Dio apre la porta alla disumanizzazione. Dai Vangeli noi reimpariamo la vera umanità e ritorniamo in mezzo agli uomini. Ancora J. Ratzinger: «Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini» (in “L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture”).

Oggi si crede poco, perché si pensa poco. «La fede se non è pensata è nulla», diceva Sant’Agostino (De Praedestinatione sanctorum, 2,5). Oggi si socializza poco, perché si ama poco. L’autore della Lettera agli Ebrei scrive: «Perseverate nell’amore per i fratelli (philadelphía); non trascurate l’amore per i forestieri (philoxenía)» (cf Eb 13, 1-2). Altrimenti Dio, l’Altro da me, l’Altro che si fa sempre prossimo, diventa un “altrove”, un luogo sconosciuto, impervio e troppo faticoso da abbracciare.

Serve un supplemento di cuore; urge che la verità sussulti in noi. Il laico cristiano non è un utopista quando assolve al suo servizio profetico, quando guarda il disordine morale e spirituale del mondo evocando un’altra possibilità di essere uomini su questa terra.

Ciascuno di noi è un testimone del dolore e delle speranze di un’epoca e se ne fa carico; vive su di sé l’angoscia di un mondo che non riesce più a trovare il rapporto tra le parole, ormai consumate e deludenti, e la Parola, che permane eterna.

Serve un supplemento di passione, perché le grandi passioni sociali e civili che animavano la nostra tradizione occidentale stanno tramontando. È errato dire che ci sono negate; siamo noi che le stiamo lasciando tramontare! Ed ecco che l’amore si spegne, si scompone il dinamismo relazionale della nostra fede, i poveri divengono sempre più poveri, i lontani sempre più lontani. E agli uomini è tolta la possibilità stessa di esperimentare l’amore: nelle case, come nelle istituzioni; per le strade come nelle nostre chiese.

Io ritengo che sia questo lo spazio più vero, autentico, fruttuoso della nostra laicità cristiana; un’originalità che nulla di nuovo ha da aggiungere all’ordine naturale delle cose, allo statuto antropologico voluto da Dio per l’uomo in ordine alla vita e alla morte. Senza pregiudizi, rimorsi, o concessioni alla banalità del dire, del pensare e del vivere che impera.

Bisogna riprendere la parola: il Vangelo non può essere dimenticato. L’oblio della memoria cristiana, che come un virus colpisce molti credenti a noi contemporanei, rende la nostra generazione colpevole di afasia, di un mutismo spirituale intollerabile.

Non si tratta di sottrarsi al dialogo con gli uomini altrimenti pensanti e credenti da noi, in un’epoca che coniuga tutto “al plurale”, né di mostrare i muscoli dinanzi ad una cultura che in modo irresponsabile cerca di abbattere il divario tra il bene e il male, così che il male sia lecito e che ogni cosa – se ritenuta buona – sia un bene.

Il vertiginoso mutamento del senso delle parole fondamentali che regolano la nostra esistenza umana ci fa assistere ad una sconvolgente evidenza, che il poeta Pasolini, impietosamente, così descrive nella sua poesia, “Il glicine”: “Chi finora ha parlato con speranza, resta indietro, invecchiato”.

Essere profeti significa sapere anticipare il futuro degli uomini nel presente di Dio, in cui ogni domanda, ogni gesto, sono marcati da un affetto profondo, da quell’amore di Dio e per Dio che ci tiene in vita, che tiene in vita le nostre società sempre più incapaci di essere misericordiose e benevole.

Non riusciremo efficacemente a costruire il “bene comune” senza una coscienza cristiana comune, derivante da un’identità cristiana netta e piena. Senza una coscienza formata e informata dei principi derivanti dalla fede cristiana, la coscienza si fa erronea, si fa incoscienza, con i rischi di deriva spirituale, umana e morale a cui tutti assistiamo.

La libertà di coscienza non può divenire l’istanza che ci dispensa dalla verità. Essa si trasforma così nella giustificazione della soggettività, nella giustificazione del conformismo sociale.

Non può darsi il bene comune se a sorreggerlo è una “coscienza erronea”. L’ammutolirsi della coscienza porta alla disumanizzazione del mondo e al trionfo dell’individualismo sociale, che è il pericolo mortale del bene comune, perché l’egoismo è la peggiore scuola di crudeltà sociale.

In conclusione. Il santo Curato d’Ars diceva: «Verrà un giorno in cui gli uomini saranno così stanchi degli uomini, che basterà loro parlare di Dio per farli piangere».

La Provvidenza ha dato a noi tutti la grazia di attraversare due millenni, di introdurre un nuovo secolo di vita cristiana. Abbiamo avuto il privilegio di udire e comprendere Giovanni Paolo II che ci parlava di Dio con la sua irresistibile lingua eucaristica; un uomo martoriato da mille sofferenze, privato infine dell’uso della parola, che non ha mai cessato di parlare la lingua dell’amore, la lingua compassionevole dell’amore misericordioso, la lingua materna dell’umanità, quella che tutti capiscono, quella che un giorno tutti, dinanzi al mistero del male e della morte, finiscono con l’invocare.

Noi non siamo capaci di comprendere il sole, ma non per questo ci sottraiamo alla sua luce. Forse non riusciremo mai a cogliere fino in fondo la portata e il potere della nostra fede, ma non per questo possiamo lasciarla immiserire. Potremmo anche non essere capaci di fare una dotta relazione, ma non per questo smettere di parlare di Dio agli uomini con la nostra vita.

Che la Provvidenza ci conceda di assumerci il rischio del presente, senza rinviare la responsabilità della nostra personale testimonianza, perché il futuro germoglia sempre nel presente che vogliamo.

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ZENIT Staff

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