Eric-Emmanuel Schmitt e l'ossessione per Gesù

ROMA, sabato, 18 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’articolo di padre Ferdinando Castelli, S.I., apparso sulla rivista “La Civiltà Cattolica” e dedicato allo scrittore francese Eric-Emmanuel Schmitt, autore di pièces e di volumi di narrativa.

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TANTE PICCOLE COSE

Gli oggetti nella vita quotidiana

ERIC-EMMANUEL SCHMITT

«La figura di Gesù divenne una ossessione»

Ferdinando Castelli S.I.

Da circa 20 anni, sulla scena letteraria francese, Eric-Emmanuel Schmitt si è andato affermando fino a diventare, oggi, uno scrittore di culto (1). Le sue pièces sono rappresentate dappertutto; anche i suoi romanzi, tradotti in molte lingue, sono letti e apprezzati. La sua opera si contraddistingue per la freschezza e la semplicità di stile, per la varietà e la scelta dei temi, sempre coinvolgenti e originali, per il tono familiare, scandito di umorismo e di poesia. Prima di analizzare il suo romanzo più impegnativo — Il Vangelo secondo Pilato —, riteniamo opportuno riferire il racconto della conversione al cristianesimo del suo autore, sia perché si tratta di un documento suggestivo (in un certo senso rimanda a Ma conversion di Claudel), sia per una migliore comprensione della sua opera, sia infine perché offre alcuni elementi del suo iter verso il cristianesimo.

«Ho impiegato molto tempo a pormi il problema del cristianesimo sia perché sono nato alla fine di un secolo che ha accumulato tante guerre e genocidi da proibire ai suoi figli lucidi di credere ancora al bene, sia perché sono cresciuto ateo in una famiglia atea e sia perché ho fatto i miei studi di filosofia in una Parigi divenuta completamente materialista. Non avevo pertanto prestato attenzione alcuna a questa strana storia di un falegname, morto su una croce, costruita da un altro falegname.

«Per interessarmi a lui ci sono volute due notti. Una sotto le stelle, nel Sahara, l’altra in una mansarda, a Parigi. Nel febbraio del 1989, ho percorso il deserto dell’Hoggar con dieci persone; un viaggio igienico e sportivo, camminando tra cammelli carichi di bagagli e di vettovaglie. Un giorno, discendendo da una montagna, mi sono messo alla testa della comitiva, impaziente e veloce, senza mai voltarmi indietro, incurante di verificare il tragitto. È capitato quanto, senza dubbio, cercavo: mi sono perduto. Alle sette di sera è piombata la notte, si è alzato il vento, il freddo ha riempito lo spazio, e mi sono trovato solo, a varie centinaia di chilometri dal vicino villaggio, senza né acqua né cibo, consegnato all’angoscia, promesso presto alla morte e agli avvoltoi. Invece di cadere nella paura, ho avvertito, distendendomi sotto un cielo carico di stelle, grandi come mele, il contrario della paura: la fiducia. Durante questa notte di fuoco, ho vissuto un’esperienza mistica, l’incontro con un Dio trascendente che mi placava, mi istruiva e mi dotava di una forza che non poteva provenire da me. Al mattino, come una traccia, in impronta, deposta nel più intimo di me, c’era la fede. Dono. Grazia. Meraviglia. Potevo morire con la fede o vivere con la fede.

«Evidentemente, questo Dio del Sahara, non apparteneva ad alcuna religione. Sprovvisto com’ero di cultura religiosa, non avrei assolutamente potuto sapere quale Dio fosse: se quello di Mosè, di Gesù o di Maometto. Al ritorno in Europa mi sono immerso nei grandi testi sacri e nei poeti mistici di ogni confessione, dal buddista Milarepa a san Giovanni della Croce, passando per il sufi Rumi, inebriandomi, ogni volta, di senso. Mi attendeva intanto un’altra notte, un secondo choc: la lettura dei quattro Vangeli. Notte di tempesta, questa volta. Durante alcune ore, seguendo un movimento di flusso e riflusso, ero attirato e respinto o ricondotto alla superficie, annegato nell’incomprensione, poi portato sulle onde dell’amore. La figura di Gesù divenne una ossessione. Alcuni anni più tardi, mi sono deciso a dare un nome a questa ossessione: il mio cristianesimo. Da tutto ciò è venuto fuori un romanzo, Il Vangelo secondo Pilato, apparso nel 2000» (2).

Questo romanzo è la trascrizione dell’ossessione che ha coinvolto il suo autore. Perché ossessione? Perché Gesù Cristo è un mistero, e «un mistero è un problema che fa esplodere l’inquadratura razionale, mina la maniera stessa di porre i quesiti, priva di consistenza la razionalità» (3). Gesù Cristo mette in crisi il nostro modo di essere e di pensare. Ma, chi è Gesù Cristo? Che cosa ha detto di sé? Se Dio incarnato, aveva la coscienza di questa realtà? Dio incarnato o un uomo in cui Dio si è rivelato in maniera particolare? Perché ha voluto morire? È veramente risorto? Sono dunque in causa i due pilastri del cristianesimo: l’Incarnazione e la Risurrezione. La prima parte del romanzo — o prologo — disquisisce sul primo, la seconda — più corposa, più elaborata — sul secondo.

«Confessione di un condannato a morte la sera del suo arresto»

Nell’orto del Getsemani, in attesa che i soldati vengano ad arrestarlo e consegnarlo al tribunale che lo condurrà alla crocifissione, Jeshua ripensa la sua vita. «Avrei potuto essere altrove, questa sera. Avrei potuto spassarmela in una locanda, mescolato ai pellegrini della mia terra […]. Ecco dove mi ha condotto questo mio sogno: aspettare in questo giardino una morte che mi fa paura» (p. 9 s). Quale sogno? Il sogno che la sua risurrezione dalla morte avrebbe confermato il convincimento delle folle: essere lui il messia. Ha accettato la scommessa di Jehuda: «Il terzo giorno ritornerai», ed eccolo ora, in preda alla paura e al dubbio, in attesa che il suo destino si compia.

Quando suo padre è morto, «di colpo, sotto il sole di mezzogiorno», ne ha preso il posto di carpentiere per mantenere fratelli e sorelle. Carpentiere mediocre, ma giovane ricercato per saggezza e per capacità di amare. Pensa di non essere fatto per il matrimonio, ma quando incontra Rebecca, splendida per bellezza e qualità femminili, decide di sposarla. Invita la giovane in una locanda sul lago, le offre in dono una spilla di oro, mangiano e bevono, quando un vecchio e un bambino chiedono la carità. Lei si lascia sfuggire una esclamazione rabbiosa, e l’oste scaccia i mendicanti a colpi di strofinaccio. Il giorno seguente Jeshua rompe il fidanzamento. Ha scoperto «il terribile egoismo che si annida nella felicità»; e lui non è fatto per la felicità che «ci lascia in disparte, fa chiudere le porte, serrare le imposte, dimenticare gli altri, erigere muraglie invalicabili; la felicità presuppone il rifiuto di vedere il mondo così com’è» (p. 24).

Sfidando le ire dei familiari e la disapprovazione della madre, Joushua intende vivere per gli altri, amarli, operare per la giustizia, condividere la sofferenza. Diventa, senza volerlo, un consolatore degli afflitti e un consigliere dei dubbiosi, tanto da attirarsi lo sdegno del rabbino: «Ma chi sei tu per pensare di poter parlare delle Scritture? Chi sei per poter dare dei consigli agli altri? […] A Gerusalemme saresti già morto, lapidato» (p. 24). Che cosa fare? Dietro consiglio di sua madre, si reca dal cugino Giovanni. Lo osserva, lo ascolta; magro, irsuto, ruvido; pratica un battesimo per la remissione dei peccati. Quando Jeshua gli si presenta per essere battezzato, egli lo fissa, poi si mette a gridare: «Ecco l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» (p. 35). E aggiunge: «Sono io ad aver bisogno di essere purificato da te! Sono io che ti chiamo con tutte le mie forze e tu che vieni a me! Io ti amo!». Gesù sviene. Alcune donne raccontarono che dal cielo era scesa una colomba e si era posata sulla sua fronte.

L’interrogativo sulla sua identità si fa presente. Su di lui circolano giudizi discordi: il Messia? un guru? un illuso? «Da trent’anni tutti avevano un’opinione sul mio destino; io no». Per sfuggire alle tante dicerie, si rifugia nel deserto, e qui fa un’
esperienza sconvolgente. «Precipitavo dentro me stesso […]. Poi ebbi la sensazione di rallentare. Stavo cambiando consistenza […]. E, lentamente, si consumò la trasformazione. Ero io e non ero io […]. Approdai in un oceano di luce […]. Ero disceso nella fucina della vita, nel centro, nel focolare, là dove tutto si fonde, si fonda e si decide. Dentro di me non trovavo il mio “io”, ma più che me stesso, molto più che il mio io: un mare di lava in fusione, un infinito mobile e cangiante dove non percepivo alcuna parola, alcuna voce, alcun discorso, ma dove provavo una sensazione nuova, terribile, gigantesca, unica, inesauribile: il senso che tutto fosse giustificato» (p. 38).

In questo mare Jeshua non trova se stesso, trova Dio. Meglio, dentro di sé c’è qualcosa di più che se stesso, «un tutto che non è me e che tuttavia non mi è estraneo», lo oltrepassa, lo organizza; «un tutto sconosciuto da cui si diparte ogni conoscenza, un tutto incomprensibile che rende possibile ogni comprensione, un’unità da cui derivo, un Padre di cui sono il Figlio» (p. 39). Figlio di Dio o vittima di una tentazione? Lui, un falegname, figlio di Dio? Realtà divina o illusione diabolica? Nessuna risposta. Allora fa una scommessa: «La scommessa di credere che le mie cadute, le mie gravi meditazioni, mi conducessero a Dio e non a Satana. Ho fatto la scommessa di credere che avevo qualcosa di buono da fare. Ho fatto la scommessa di credere in me stesso» (p. 40).

Seguono giorni esaltanti. Seguìto prima da Andrea e Simone, poi da altri discepoli, percorre la Galilea predicando quanto Dio gli rivela e riversando la sua attenzione e il suo amore su poveri, miseri, afflitti, donne. Quando si trova di fronte a un quesito, si apparta dietro un albero o una roccia e si cala «nel suo pozzo», cioè «nel fondo di me stesso per incontrare mio Padre e riemergere con un’inesauribile dose d’amore» (p. 49). Non mancano incomprensioni e difficoltà. I suoi familiari lo rifiutano, anzi lo odiano; sua madre, piangendo, gli prospetta il traguardo della follia; il clero è indignato per i suoi insegnamenti e il suo agire contro la Legge.

La situazione si aggrava quando si verificano alcuni miracoli. Miracoli? O non piuttosto energia che si sprigiona dalla capacità di amare? Oppure eventi spiegabili naturalmente? Un dubbio lo assale: che i suoi discepoli, travolti dalla passione, esagerino e parlino di prodigi. «Non sono forse stati loro a riempire gli otri di vino? […] Ad avermi attribuito il felice arrivo di un branco di pesci nel lago di Tiberiade?» (p. 49). Esaltati, in buona fede. Anche l’episodio del figlio di Rebecca (la vedova di Nain), da lui richiamato alla vita, può avere una spiegazione naturale (4). A Jehuda che afferma il miracolo, così replica: «Sai bene anche tu come sia difficile riconoscere la morte. Quante persone vengono sotterrate vive? Il bambino forse era soltanto addormentato» (p. 57 s). Insomma, lui non ha il potere di compiere miracoli. È il Padre, è la fede a compierli.

Jehuda è di parere diverso: la risurrezione del bambino è la prova che Jeshua è l’Eletto. Gli si prostra a terra e piange, abbracciato ai suoi piedi. Per non deluderlo Jeshua riformula la scommessa: «Jehuda, io non so chi sono. So soltanto che sono abitato da qualcuno che è più grande di me. So anche, in virtù di quell’amore che egli mi manifesta, che Dio da me si aspetta molto. Allora, Jehuda, ascolta bene quello che ti dico. Faccio una scommessa. Scommetto, dal più profondo del mio cuore, di essere colui, sì, colui che tutto Israele attende. Faccio la scommessa di essere veramente il Figlio» (p. 58).

Tra i suoi discepoli il prediletto è Jehuda. Istruito e conoscitore delle Scritture, vuole convincerlo di essere il Figlio di Dio, il Messia. I sacri testi sono chiari: «Tu devi tornare a Gerusalemme, Jeshua. Il Cristo conoscerà la sua apoteosi a Gerusalemme, i testi sono espliciti. Dovrai essere umiliato, torturato, ucciso prima di rinascere. Sarà un momento difficile» (p. 64). Illuminato dalla sua fede, Jehuda parla della morte del Messia «con la calma della speranza»: «Tu morirai per qualche giorno, Jeshua, tre giorni, poi risorgerai». La forza persuasiva del discepolo amato ha il sopravvento sulla paura del maestro. Jeshua accetta di morire, e prega Jehuda di aiutarlo: accetti di essere considerato un traditore, lo consegni ai soldati e alla croce. E Jehuda? Andrà a morire anche lui: «Se tu vai a farti crocifiggere, perché io non posso andare ad impiccarmi?» (p. 75). Tutto si compie secondo quanto previsto. Il gesto di Jeshua è chiaro. Accetta di morire perché il suo dubbio si risolva. Se dopo tre giorni risorgerà, è davvero il Messia, altrimenti sarà ritenuto un illuso. Risorgerà? La seconda parte del romanzo ci dà una risposta.

Il Gesù descritto da Schmitt ci lascia perplessi. Un romanziere può, sì, lavorare di fantasia, può interpretare e amplificare la storia per una sua migliore comprensione, ma non può contraddirla, come avviene nel suo romanzo. In tre punti, particolarmente importanti, la manipolazione storica risulta grave. Gesù non ha mai dubitato della sua identità di Figlio di Dio e di Messia; non ha mai negato il suo potere di compiere miracoli né si è mai dichiarato peccatore; si è volontariamente consegnato alla morte in croce per la redenzione dell’uomo, non per conoscere la propria identità. Come si fa poi a pensare che sua madre lo esorti a «diventare più serio» considerandolo un donnaiolo (p. 20) a motivo della sua riluttanza a prender moglie? «Tu sei la mia disperazione» (p. 46) gli dice piangendo e lo considera un pazzo («Tu stai diventando pazzo»), perché afferma di amare tutti, non solo i familiari. Soltanto negli ultimi tempi Gesù riuscirà a convincerla della bontà delle sue scelte (5).

Un punto ripetuto nel romanzo riguarda le discese di Gesù «dentro il pozzo d’amore». Schmitt violenta la sua fantasia per descrivere questo pozzo nel quale Gesù s’immerge per incontrare il Padre, scoprire i segreti «che Dio aveva depositato in fondo alle sue meditazioni». Che cos’è questo «calarsi nel fondo di se stesso»? Si vuol dire che Gesù vive in comunione col Padre? In comunione di natura? Oppure che il Padre lo gratifica di una singolare intimità? Difficile dire. Comunque sia, l’Autore qui ci lascia sulla soglia del mistero nel quale si muove il suo Jeshua: questo Jeshua dal cuore grande, che accoglie i poveri e gli infelici, che redime la sofferenza, che salva l’adultera, che non vuole vivere per se stesso, ma per gli altri.

«Il Vangelo secondo Pilato»

La seconda parte del romanzo — Il Vangelo secondo Pilato — ha come protagonista Pilato, procuratore romano della Giudea. Tre giorni dopo la crocifissione di Jeshua, la mattina di Pasqua, un centurione gli dà una strabiliante notizia: «Il corpo è scomparso!». La notizia lo inquieta per i riflessi politici che ne possono derivare. Come è potuto accadere? Quali piste seguire per risolvere il caso? Con tali premesse, il romanzo acquista subito un ritmo poliziesco, con colpi di scena che oscillano tra storia e fantasia. Si deve notare che qui la fantasia è sostanzialmente convincente e non contraddice i Vangeli negli elementi essenziali, ma li amplifica con trovate suggestive e letterariamente felici. Il romanzo si compone di 23 lettere che Pilato invia al fratello Tito, a Roma. Ciò gli permette di spostare l’obiettivo sugli sfondi più vari e di affrontare scavi psicologici.

«Il corpo è scomparso […]. Lascia che ti riassuma brevemente la storia del mago di Nazareth». Così Pilato definisce Gesù: Jeshua è chiamato in Giudea. Da qualche anno non si fa che parlare di lui. Pilato non lo conosce bene, ma lo sa persona inoffensiva, occupato in questioni religiose, dal dire misterioso e tortuoso, capace di accattivarsi molte simpa
tie, ma anche antipatie e inimicizie. Claudia Procula, moglie del procuratore, donna raffinata, intelligente, innamorata del marito, ha molta stima per Jeshua, anzi ne accetta gli insegnamenti e lo ama, ma non riesce a convincere Pilato di non condannarlo alla crocifissione. E lui con tristezza deve confessare: «Ho liberato questi giudei dalla presenza di un giudeo che li contraddiceva. Era questo il mio compito?» (p. 84). È anche vero però che «Jeshua con il suo atteggiamento ha attirato la morte su di sé. Voleva morire». Che cosa voleva dirci con la sua morte?

La scomparsa del suo corpo mobilita sia Pilato sia Caifa. Le ricerche per acciuffare i ladri e ritrovare il corpo di Jeshua hanno un inizio felice: in un ovile sono scovati i suoi discepoli. Atterriti e smarriti, cadono in ginocchio davanti a Pilato e invocano pietà. «Abbiamo creduto a Jeshua perché eravamo ingenui. Ci siamo lasciati incantare dalle sue promesse […]. La nostra unica colpa è stata di averlo ascoltato un po’ troppo» (p. 99). L’ispezione alla ricerca del cadavere dà esito negativo; come avrebbe potuto compiere un’azione così ardua gente così paurosa? Pilato sta per rimandarli alle loro case quando sopraggiunge un bel giovane, in preda a una forte emozione. «Jeshua non è più nel sepolcro» annuncia gioiosamente. Poi, senza tradire il minimo imbarazzo, sorridendo, dice al procuratore: «Buongiorno, Ponzio Pilato. Io sono Giovanni, figlio di Zebedeo. Sono venuto ad annunciare ciò che tutta Gerusalemme già sa: Jeshua ha lasciato il suo sepolcro» (p. 102). Sa anche chi ha rubato il cadavere: «l’angelo Gabriele».

Dinanzi a tale rigurgito di superstizione Pilato si sente impazzire («La Giudea fa impazzire»); lascia questi sprovveduti discepoli e cerca in altre direzioni. Giuseppe d’Arimatea suscita i suoi sospetti. È amico di Jeshua, autorevole, ricco per assoldare ladri efficienti, trafugare il cadavere e così vendicare l’ostilità del sinedrio nei riguardi del condannato alla croce. Quando entra nella casa di Giuseppe d’Arimatea ha una sorpresa: prima di lui Caifa è venuto e ha messo a soqquadro la casa alla vana ricerca del cadavere di Jeshua. La conclusione di Pilato è amara: «Eccomi, senza una nuova pista, trattenuto a Gerusalemme per correre dietro a un cadavere che si sta decomponendo» (p. 110).

Un’altra notizia porta lo scompiglio. Caifa irrompe nella casa di Pilato, furibondo, e prorompe con voce disperata: «Jeshua! E riapparso! Vivo». È riapparso a Salomè. E propone al procuratore di incontrare la principessa. Il racconto della giovane è semplice. Tornava a palazzo dal cimitero dove aveva pianto la morte del Rabbi. Un uomo la ferma e le chiede perché pianga. «Tu non devi più piangere Jeshua — soggiunge —. Se ieri era morto, oggi è risuscitato». Lei lo riconosce, e cade in ginocchio. «Alzati, Salomè. Tu sei colei che ho scelto per essere la prima. Tu hai molto peccato, Salomè, ma io ti amo e ti ho perdonato. Va’ a portare la buona novella a tutti gli uomini. Va’» (p. 136). I due uomini non si lasciano sedurre. «La ragazza è semplicemente pazza. È la testa  matta della casa di Erode». Sono sul punto di separarsi quando, «montata su un asino, avanzava una donna, una donna matura, molto bella». Caifa la riconosce: è Maria di Magdala, l’ex-prostituta, che con voce calda e profonda esclama: «L’ho visto! L’ho visto! È resuscitato […]. Rallegratevi. È resuscitato. Dov’è sua madre? Voglio dirglielo». E alla madre, che esce da una casupola di argilla, narra l’apparizione del figlio risorto e comunica la missione, da lui avuta, di annunciare la buona novella al mondo intero: «Jeshua è morto per tutti voi, e per tutti voi è resuscitato» (p. 139).

Il commento di Caifa è perentorio: «Siamo perduti». Ma Pilato non si arrende. Quando, nel pomeriggio, ascolta il racconto dei due uomini che dichiarano di aver visto Jeshua sulla strada di Emmaus, ha un’illuminazione: l’apparizione del Rabbi rivela un’assoluta uniformità, mentre è proprio la diversità delle testimonianze che conferma la loro autenticità. Chi può essere il regista della messinscena? Nessun dubbio: Erode. Si precipita nel palazzo del tetrarca e lo trova disteso su una miriade di cuscini, pallido e verdognolo. Dopo due agitati discorsi, prima con Erode poi con Erodiade, sua moglie, comprende l’inconsistenza della sua illuminazione. Ma Erodiade gliene fornisce un’altra: «Hai mai pensato a un doppio?». L’ipotesi di un sosia di Jeshua seduce anche Caifa: «Ma certo, Pilato, hai perfettamente ragione! Jeshua sta marcendo chissà dove, mentre un sosia ha preso il suo posto. Ma chi potrebbe essere?» (p. 162 s). Il sospetto cade su Giovanni, il figlio di Zebedeo. Lo catturano, Pilato lo interroga con scrupolosità, lo studia, e resta impressionato dal candore e dalla «follia» del giovane che sogna il regno dell’amore, profetizzato da Jeshua. L’ipotesi del sosia si rivela vana. Pilato rientra a palazzo, si butta sul letto dove Claudia dorme. L’amore della donna e il calore del suo corpo lo ridestano alla vita. Lei vorrebbe parlargli, lui con i baci glielo impedisce. Infine la invita a parlare: «“Allora?”. “Questa notte ho visto Jeshua. Mi è apparso. È resuscitato”» (p. 172).

La rivelazione lo spezza. Da una parte c’è il buon senso e il ragionamento, dall’altro la realtà, «una realtà testarda, assurda, impossibile, impensabile, inaccettabile, ripetitiva, ostinata, spaventosa, sbalorditiva» (p. 173). Un morto che risuscita? La ragione si ribella, ma la realtà, affermata da Claudia, s’impone. «Posso mettere in dubbio tutte le testimonianze tranne una, appunto quella di Claudia». Arrendersi alla testimonianza di colei che ama e stima sopra ogni cosa? Non ne ha il coraggio, neanche quando Nicodemo gli illustra le profezie degli antichi profeti, specialmente di Isaia.

Una battuta del filosofo Craterio lo fa sussultare. Jeshua è vivo? «Se è ancora vivo, significa che non era morto sulla croce». Morte apparente. Un ricordo conforta l’ipotesi. In casa di Giuseppe d’Arimatea ha visto un uomo pallido e ferito, curato dalle serve. «E se fosse stato Jeshua convalescente, che né io né gli uomini di Caifa avevamo riconosciuto perché, ovviamente, stavamo cercando un morto?» (p. 185). Pilato mobilita testimoni e soldati per sapere quanto realmente è avvenuto sul Calvario; il medico Sertorio afferma che cinque ore di crocifissione sono insufficienti per determinare una morte certa; altri particolari confermano la legittimità del dubbio sulla morte del crocifisso. E il responsabile dell’inganno? Pilato non ha dubbi: Giuseppe d’Arimatea. Lo imprigiona, lo sottopone a un duro interrogatorio che produce l’effetto contrario: il prigioniero è innocente.

Ora Pilato è solo col suo dubbio. Claudia è andata via. In una lettera gli confessa di essere stata sul Calvario al momento della morte di Jeshua, in incognito, di essere sicura della sua morte, di aver avvolto nel sudario il suo corpo rigido e raggelato, di averlo pianto come morto. «Ero sciocca. Non credevo sufficientemente in lui. Ora, in me, si è fatta luce. Raggiungimi presto sulla via di Nazareth. Ti amo. La tua Claudia» (p. 207). Solo e smarrito. Jeshua da enigma è diventato mistero, e «non c’è nulla di più angosciante di un mistero» perché fa pensare e immaginare, non conoscere e sapere, come lui vuole.

Dopo alcuni giorni di silenzio, accetta l’invito di Claudia e si mette in cammino, «in mezzo ad altri uomini in cammino»; lui per rintracciare Claudia, gli altri per vedere Jeshua, in Galilea. Col cappuccio sugli occhi e a capo chino, avanza con la folla, avverte la vicinanza degli altri e perde l’antica idea di essere unico. Tutti si è «spinti da qualcosa di indistinto come la sete, una sete dell’anima che vorrebbe saziarsi a una fonte autentica». È il richiamo al Regno di cui parlava Jeshua: regno di amore e di libertà. Arrivati alle falde del Tabor e superato il primo valico, si viene a sapere che gli undici discepoli erano già arri
vati in cima. «Poi un grande bagliore, una specie di spada di acciaio scintillante ha squarciato le nubi e ha percorso la montagna» (p. 220). Giunti ai piedi dell’ultima salita, «abbiamo visto riversarsi come fuori dalla montagna gli apostoli», lieti di raccontare l’ascensione al cielo di Jeshua, nella sua gloria, e la missione ricevuta di annunciare la Buona Novella a tutti gli uomini. Pilato, sceso dal Tabor, ritrova Claudia che gli annuncia una nuova vita: «Porto in grembo nostro figlio».

«Ora sono un romano che dubita»

Le ultime pagine del romanzo — le più intense, le più approfondite e significative — hanno il sapore della meditazione. Rientrato a Cesarea, Pilato ripensa all’incontro con Jeshua, prima della condanna a morte. «Che cosa avevo io di più di quel mendicante giudeo? L’intelligenza strategica, una nascita romana, una posizione che mi forniva soldati e armi, e molte altre cose ancora… Ma tutto questo aveva un valore?» (p. 229). Il potere? L’«osceno» e «aberrante» potere di «decidere cosa è bene cosa è male»? La sua meditazione si sposta sulle domande radicali: «Che cosa merita che ci si batta? Che si muoia? Che si viva? Che cosa vale veramente?». Alcune sue vecchie certezze si frantumano: «La certezza di essere il padrone della mia vita, la certezza di abbracciare l’ordine del mondo, la certezza di conoscere gli uomini per come sono», e si trova sospeso al dubbio. «Prima ero un romano che sapeva, ora sono un romano che dubita» (p. 230).

I suoi dubbi più incalzanti riguardano Jeshua, il cui messaggio rinnega tutto un modo di essere e di pensare. Con amorevole chiarezza, Claudia smonta i ragionamenti che il procuratore avanza contro Jeshua. Lei ha visto, lui no. Anche l’amico Fabiano ha visto Jeshua, ma non lo ha ascoltato, e si è dileguato in un vagabondaggio senza mèta. Claudia insiste sulla libertà. «Jeshua ha reso l’uomo libero. Lasciandoci la possibilità di credere o di non credere, tiene conto di questa libertà. Si può essere obbligati ad aderire? Si può essere forzati ad amare? […]. Jeshua ci ama troppo per prevaricare. Ed è proprio perché ci ama che ci permette di dubitare. Questa parte di scelta che ci lascia è l’altro nome del suo mistero» (p. 232).

Il romanzo si conclude con una nota suggestiva. Rientrato a Roma, Pilato, sempre assediato dal dubbio, dice a Claudia: «Io dunque non sarò mai cristiano, Claudia. Perché non ho visto niente, tutto mi è sfuggito, sono arrivato troppo tardi. Se volessi credere, dovrei in primo luogo credere alla testimonianza degli altri». Lei gli risponde con una frase rassicurante: «Allora sei forse tu, Pilato, il primo cristiano». La fede — suggerisce Claudia — si fonda anche sulla testimonianza qualora questa si riveli ragionevole, come lo è nella risurrezione di Gesù. Con felice intuizione, Claudia gli ricorda anche che «dubitare e credere sono la stessa cosa. Solo l’indifferenza è atea» (p. 230) (6).

Risorgerà Jeshua? È l’interrogativo posto a conclusione della prima parte del romanzo per verificare la sua divinità. È risorto, risponde, anche se indirettamente, Schmitt. Jeshua è il Figlio di Dio.

Abbiamo analizzato il romanzo nei suoi elementi essenziali senza soffermarci sugli episodi di contorno e sui personaggi che affiancano i protagonisti e conferiscono alla trama ricchezza e piacevolezza di contenuto. In esso tre elementi positivi risaltano in modo particolare: la realtà della risurrezione di Gesù, la fede concepita in chiave di libertà e di ragionevolezza, il dubbio considerato non come antitesi alla fede ma come elemento propulsore della ricerca. Notevole è nel romanzo anche l’affermazione del primato dell’amore, dell’uguaglianza, della dimensione interiore della religione. Gli aspetti negativi si riducono principalmente a uno solo: Gesù Cristo visto al di fuori dell’unione ipostatica. Tale visione comporta nel testo ambiguità e incomprensioni.

Terminiamo con una distensiva e gioiosa citazione: «Io amo questa Claudia inquieta, dignitosa, sensibile, imprevedibile e misteriosa. Mi ha messo ai suoi piedi. Ne sono affascinato come Pilato» (7). In lei Eric-Emmanuel Schmitt vede se stesso: «Claudia, c’est moi», perché è approdato, come lei, alla fede in Gesù Cristo (8).

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1 Eric-Emmanuel Schmitt è nato presso Lione nel 1960. Ha studiato musica e letteratura e si è laureato in Filosofia con una tesi su Diderot et la Métaphysique. Ha insegnato Filosofia all’Università di Chambéry. Per la sua produzione drammaturgica e narrativa ha ricevuto molti riconoscimenti e vinto premi prestigiosi. In traduzione italiana le edizioni E/O hanno pubblicato Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano, Piccoli crimini coniugali, Milarepa, La parte dell’Altro, La mia storia con Mozart, Quando ero un’opera d’arte, Odette Toulemonde, La rivale. Rizzoli ha pubblicato due brevi e deliziosi romanzi: Il bambino di Noè e Oscar e la dama in rosa, e la San Paolo l’importante romanzo Il Vangelo secondo Pilato.

2 Cfr E.-E. SCHMITT, Mes Evangiles, Paris, Michel, 2004. Questo volume è la riduzione teatrale di L’Evangile selon Pilate. Il testo riportato ne è la prefazione. In traduzione italiana il romanzo è stato pubblicato dalla San Paolo: Il Vangelo secondo Pilato, Cinisello Balsamo (Mi), 2002. Le citazioni si riferiscono a questa edizione. La ristampa francese del romanzo, nel 2005, porta una nota finale, lunga e interessante, che aiuta il lettore a interpretare i problemi posti nel romanzo: Journal d’un homme volé. La citeremo con Journal.

3 Journal, 264.

4 Nel Journal l’Autore si chiede: «Sapeva Gesù sin dall’inizio che era il figlio di Dio o lo ha scoperto progressivamente?». E risponde: «Mi sembra che i quattro Vangeli, salvo qualche particolare, rispondano a tale quesito: Gesù è soltanto un uomo, ispirato da Dio certamente, ma nient’altro che un uomo fino alla sua morte in croce. Diversamente non soffrirebbe. È la Risurrezione che gli conferisce, nella sua realtà terrena, la realtà (le statut) di Dio» (p. 247). Evidentemente manca all’Autore la nozione di unione ipostatica: l’unione della natura umana e divina nella sola persona del Verbo. Gesù che nasce e muore nella natura umana è Verbo di Dio.

5 Affermando che «Gesù nasce e muore come un uomo» (cfr Journal, cit., 251) Schmitt nega non soltanto la concezione del Verbo per opera dello Spirito Santo, ma anche la concezione verginale di Maria. Ritiene anche che «il compito dato a Maria appare nettamente come il frutto della storia del cristianesimo più che il prodotto dei Vangeli» (ivi). Affermazione grave e del tutto gratuita.

6 L’affermazione riecheggia il pensiero di sant’Agostino, ripreso da Pascal: «Consòlati, tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato» (Pensées, 553).

7 Journal, cit., 262.

8 Il Vangelo secondo Pilato è il romanzo più impegnativo di E.-E. Schmitt, ma forse non il più bello.

© La Civiltà Cattolica 2008 IV 133-144  quaderno 3800

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ZENIT Staff

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