di Alexandre Ribeiro
SÃO JOSÉ DOS CAMPOS, giovedì, 16 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Si può ancora parlare di mortificazione, anche se questo termine suscita immagini negative di penitenze esagerate o perfino autoflagellazioni?
Per discutere questo tema, ZENIT ha intervistato padre José Roberto Fortes Palau, rettore dell’Istituto di Teologia e Filosofia Santa Teresina e vicario generale della Diocesi di São José dos Campos (San Paolo, Brasile). Il sacerdote ha conseguito il dottorato in Teologia presso la Pontificia Università Cattolica di Rio de Janeiro ed è autore di una tesi sulla mortificazione.
Perché il termine mortificazione suscita rifiuto?
Padre José Roberto Palau: Il fatto è che di primo acchito il termine mortificazione suscita ricordi negativi, come digiuni e penitenze esagerate. Ricorda anche episodi di violenza nei confronti del corpo. Per questo motivo, è una parola che provoca un fortissimo rifiuto e grande avversione, a causa di una pratica, nel passato, di eccessi e abusi.
La mortificazione è stata erroneamente interpretata da varie generazioni di cristiani come morte letterale del corpo. Era necessario far morire il corpo, perché era inteso come fonte dei peccati, o meglio, era sinonimo di peccato. Il corpo era visto come la sede delle passioni, la parte inferiore dell’uomo, in continua opposizione con la parte superiore, l’anima.
Nel contesto di questo schema ascetico ispirato al dualismo neoplatonico e al rigore dello stoicismo – schema che ha prevalso per molti secoli nell’ascetica cristiana –, era necessario punire il corpo per non peccare. Così, in questo terreno fertile, è nata e si è sviluppata la mentalità religiosa che concepiva il corpo come un nemico da combattere. Molti cristiani hanno commesso vere atrocità contro il loro corpo.
Il Medioevo è stato prodigo nell’applicazione delle idee stoiche e neoplatoniche alle pratiche ascetiche. E’ stato il periodo delle ascesi corporali più dure e stravaganti. L’importante era imitare, riprodurre nella propria vita le sofferenze di Cristo. In conseguenza di questo, vennero inventate nuove forme di penitenze corporali e altre già esistenti, come la ‘disciplina’ (autoflagellazione volontaria), vennero perfezionate.
Verso la fine del Medioevo, la ‘disciplina’ quotidiana venne portata al fanatismo dai “flagellanti”, i membri di movimenti e confraternite medievali che praticavano la penitenza con flagellazioni pubbliche. Questo movimento ebbe il suo punto massimo nella seconda metà del XIII secolo. I gruppi di persone percorrevano le città e le campagne flagellando se stessi o flagellandosi a vicenda mentre pregavano.
E’ stata la testimonianza di una religiosa a portarla ad avere una visione positiva della mortificazione?
Padre José Roberto Palau: Sì. Si tratta di Madre Maria Teresa de Jesus Eucarístico (1901-1972), fondatrice dell’Istituto delle Piccole Missionarie di Maria Immacolata, nella città di São José dos Campos (San Paolo). Venne influenzata dalla teologia dell’infanzia spirituale di Santa Teresa di Lisieux. Le sue precarie condizioni di salute non le permettevano di praticare delle penitenze esagerate.
Madre Maria Teresa comprese che il vero senso della mortificazione non risiedeva nella pratica di digiuni rigorosi o astinenze, in cilici, prostrazioni e altre penitenze corporali, ma nello sforzo di disciplinare la volontà umana, rendendola gradualmente capace di aderire alle esigenze del Vangelo. Tanto che nelle Costituzioni dell’Istituto delle Piccole Missionarie non sono prescritti atti di mortificazione, ma spirito di mortificazione.
Madre Teresa si preoccupava delle persone malate, soprattutto di tubercolosi; voleva curare il corpo di queste persone.
La mortificazione continua ad esistere oggi?
Padre José Roberto Palau: La mortificazione continua a esistere e a godere di ampio spazio nel quotidiano del nostro popolo. Evidentemente non nel senso stretto del termine, ma nella vita disciplinata, che rappresenta il nucleo della pratica della mortificazione. Una vita regolata da diete, esercizi fisici e perfino digiuni è una questione rilevante per la cultura contemporanea.
La disciplina è un elemento fondamentale dell’esistenza umana. E’ un imperativo antropologico, una cosa che non si può semplicemente eliminare, senza gravi pregiudizi per l’essere umano. Per realizzare obiettivi, indipendentemente dalla motivazione originaria, è indispensabile lo sforzo personale, una vita regolata dalla disciplina. La mortificazione, in senso ampio, è questo: la lotta contro tutto ciò che impedisce di arrivare a un ideale, che ostacola il raggiungimento di una meta. Per questo, la mortificazione è parte integrante dell’educazione umana.
Qual è la chiave per una nuova interpretazione della teologia della mortificazione?
Padre José Roberto Palau: Il termine “mortificazione” ha la sua origine in Colossesi 3,5. Subito all’inizio (versetto 5), l’autore coniuga il verbo “mortificare” nel modo imperativo aoristo, in greco “necrósate”, che significa letteralmente “mortificatevi”, ossia “date morte”, “fate morire”. Solo che questo verbo è inserito nel contesto integrale che riprende l’argomento principale della teologia paolina di Romani 6, 1-11, il cui tema è la morte dell’“uomo vecchio”. In questo modo, il verbo mortificare, interpretato alla luce di questa catechesi battesimale, assume il significato della morte non del corpo, ma di un’esistenza peccaminosa. Pertanto, letteralmente, il termine mortificazione significa morte al peccato, all’“uomo vecchio”. E’ un termine derivato dalla stessa dinamica battesimale.
In questa dinamica esiste però un dettaglio estremamente importante: la grazia santificante crea l’“uomo nuovo”, ma il suo sviluppo non avviene automaticamente, perché è necessaria la collaborazione umana. Così, come avverte San Paolo, esiste il rischio reale che la grazia venga sprecata (cfr. 2 Cor 6, 1).
Il significato della mortificazione è che si collabora con la grazia perché l’“uomo nuovo” cresca e l’“uomo vecchio” muoia. In realtà la teologia della mortificazione è la teologia del battesimo. In questo modo si riscatta il vero senso della mortificazione: non è la morte del corpo, ma dell’“uomo vecchio”. La nostra vita è una lotta costante perché l’“uomo nuovo” cresca e l’“uomo vecchio” muoia.
Come si può vivere oggi questa teologia della mortificazione?
Padre José Roberto Palau: La mortificazione è lo svolgimento della grazia battesimale. Con questa grazia si ricevono le tre virtù teologali: fede, speranza e carità. Di fronte a questo, l’“uomo nuovo” cresce con lo sviluppo delle virtù teologali.
Esempio di mortificazione della fede è l’accettare i propri limiti, visto che la relazione sana della persona con se stessa si basa fondamentalmente sull’accettazione – senza che questa significhi rassegnazione – e sulla valorizzazione di sé. Un altro esempio: superare le false immagini di Dio, visto che molte volte costruiamo l’immagine di Dio di cui abbiamo bisogno.
Un ulteriore esempio della mortificazione della fede è assumere la frammentarietà della storia. La storia è frammentata, perché è una realtà caratterizzata dalla morte, dal male, dall’ingiustizia, è insomma una realtà costituita dalla finitezza e dalla contingenza. Non si deve negare questo fatto. La grande tentazione di oggi è fuggire verso uno “spiritualismo evasivo”, ossia utilizzare la fede in Dio come una “droga” che aliena dai problemi quotidiani.
C’è poi la mortificazione della speranza. Ad esempio, l’impegno con la giustizia. Quando molte volte prevale l’ingiustizia, si continua a lottare per la giustizia, essendo onesti in un mondo in cui tanti sono disonesti. Un altro esempio è la testimonianza della gioia pasquale. La gioia del cristiano ha la sua base teologica nella resurrezione di Cri
sto, che gli assicura la vera vita nel tempo e oltre il tempo.
Esempi di mortificazione della carità sono infine l’amare senza discriminazioni, il perdonare sempre, l’ospitalità.
[Traduzione dal portoghese di Roberta Sciamplicotti]