Fede e scienza in dialogo

CHIETI, sabato, 28 giugno 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la conferenza pronunciata il 22 maggio scorso all’Università di Chieti da monsignor Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto.

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1. Fede e scienza nell’enciclopedia dei saperi

Alla teologia – “regina scientiarum” nell’enciclopedia del sapere medioevale – la ragione moderna ha sostituito se stessa quale protagonista e vertice della conoscenza: proprio così, essa tende ad assorbire in sé la fede, a farne una “provincia dello spirito”, regolata dalle leggi del divenire che abbraccia tutte le cose. Lo spazio lasciato aperto alla scienza, intesa come esercizio della potenza della ragione, diviene così assoluto: espressione di questa ambizione totale è il positivismo scientifico nel suo versante ideologico.

La crisi delle pretese della razionalità moderna, la cosiddetta “dialettica dell’Illuminismo”, investe questo tipo di rapporto fra scienza e teologia: si avverte l’insufficienza di ogni “scientismo”, di quell’ideologia della scienza, cioè, che è stata smentita nelle sue presunzioni deterministiche assolute dalla stessa evoluzione delle teorie scientifiche, al tempo stesso in cui appare non meno ideologico e insostenibile un uso teologico strumentale della scienza. La crisi dei modelli di sapere prodotti dalla modernità smaschera i possibili impianti ideologici della conoscenza scientifica e di quella teologica.

Sapere della fede e scienza si scoprono così entrambe più povere: è forse però questa nuova povertà che consente anche un nuovo dialogo. Da una parte, la razionalità teologica non potrà che avere un compito blasfemo nei confronti di una razionalità scientifica che continuasse ad avanzare pretese di assolutezza: essa si porrà come correttivo antiidolatrico, denuncia del limite di ogni totalità chiusa, stimolo all’apertura sulla traccia dell’infinito.

Dall’altra, la razionalità scientifica avrà ragione di mostrarsi disinteressata e scettica, perfino canzonatoria nei confronti di una teologia concordistica ad ogni costo. Dove però la teologia saprà essere non meno, ma più “teologica”, e si presenterà dunque come pensiero della Krisis (K. Barth), dell’interruzione (J.B. Metz), anti-ideologico per eccellenza, e la razionalità scientifica saprà coniugare la conoscenza del mondo dei fenomeni all’onesta consapevolezza dei propri limiti, allora entrambe potranno assumere una singolare rilevanza nell’attuale contesto di “caduta degli dei”, che è la crisi delle ideologie, specie nel Nord del mondo.

Teologia e scienza, più modeste e consapevoli del loro servizio a tutto l’uomo in ogni uomo, possono allora incontrarsi sul piano della intenzionalità ultima e della responsabilità etica. Nel tramonto degli idoli, legati ai grandi miti dell’ideologia, esse si trovano a confrontarsi non come due mondi chiusi che si sfidano, ma come due forme del pensare e dell’agire umano, chiamate entrambe a misurarsi sull’altro per cui esistono.

2. Le responsabilità dell’ideologia della scienza

La razionalità scientifica è chiamata in causa dal problema – oggi più che mai attuale – della distinzione fra ciò che è tecnicamente possibile all’uomo e ciò che gli è eticamente consentito: il mito della neutralità della scienza, fondato sulla soppressione di questa basilare distinzione, si è rivelato clamorosamente distruttivo ed alienante proprio nei suoi risultati umani e sociali. La crisi ecologica, ad esempio, di cui si è così acutamente consapevoli ai nostri giorni, consiste precisamente nel turbamento indiscriminato indotto nei ritmi e negli equilibri naturali dalla trasformazione accelerata cui essi sono sottoposti a causa del comportamento umano, che la scienza ha dotato di potenzialità prima imprevedibili. Non sarebbe errato affermare che il nucleo della crisi ambientale stia nella differenza tra i “tempi storici” e i “tempi biologici”, nella sfasatura cioè fra i velocissimi tempi della tecnologia e i lentissimi tempi della biologia.

Il profilarsi della scissione fra etica e scienza coincide con quella che Martin Heidegger ha chiamato “l’epoca dell’immagine del mondo”: è il tempo in cui il trionfo moderno della soggettività si è consumato a prezzo della riduzione degli enti a mero oggetto: il conoscere diviene possesso del conosciuto e la ricerca esercizio della “volontà di potenza” della ragione assoluta; gli esseri umani si relazionano al mondo come al vasto campo del loro dominio, “maîtres et possesseurs de la nature” ( R. Descartes).

Il “sapere aude” illuministico si coniuga al “sapere è potere” (Bacone), che sta alla base del moderno sviluppo della scienza e della tecnica. Si profila a pieno campo il trionfo della ragione strumentale! La violenza che si esercita sul reale, per assimilarlo alla rappresentazione dell’ideale, è percepita come una forma di affermazione della verità, come uno stabilire l’“ordre de la raison” sull’irrazionale disordine del tempo storico. Imperialismo della soggettività, volontà di potenza e rapporto strumentale con la natura si corrispondono.

Anche la concezione del tempo è condizionata dalla svolta moderna verso il dominio del soggetto: la ragione, che sa di sapere e vuole tutto dominare, imprime ai processi storici di adeguamento del reale all’ideale un’incalzante accelerazione. Il mito del progresso non è che una delle forme in cui si esprime la volontà di potenza della ragione: in esso la presunzione della finale conciliazione, che superi la dolorosa scissione fra reale e ideale, diviene chiave di lettura dei processi storici, anima ispiratrice dell’impegno di trasformazione del presente. Il divario fra “tempo storico” e “tempo biologico” è spinto al massimo dalla sete di compimento totale, di soluzioni finali, tipica delle “grandi narrazioni” dell’ideologia del progresso, anche scientifico. Porre un limite alle pretese della scienza, negare il principio scientista per cui tutto ciò che è tecnicamente possibile è anche lecito, diventa urgenza richiesta dalla tutela della qualità della vita di tutti…

3. L’importanza del riconoscimento di un’eteronomia fondatrice

Le responsabilità della scienza e delle sue possibili pretese assolute rimandano dunque a una misura che sia fuori del chiuso orizzonte delle visioni ideologiche, a un criterio altro, capace di fondare un impegno morale, che aiuti a discernere fra ciò che è possibile e ciò che è lecito in vista del bene di tutti. La tradizione ebraico-cristiana coglie questo criterio nell’orizzonte biblico dell’alleanza con Dio: pur ricevendo una particolare dignità e responsabilità, l’uomo sta davanti a Dio nella solidarietà con tutto il creato. L’atteggiamento richiesto all’essere personale nei suoi rapporti con il mondo presenta nel più antico racconto biblico della creazione i tratti della sollecitudine, dell’affidamento e della cura: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15).

Certamente, in questa prospettiva la natura non ha nulla che possa farla divinizzare: essa è creatura, come lo è l’uomo. Tuttavia, proprio in quanto oggetto dell’amore creatore del Dio dell’alleanza, essa riveste una dignità altissima, costantemente richiamata dall’espressione del compiacimento divino dinanzi all’opera dei sei giorni: «Dio vide che era cosa buona» (Gen 1). Il disincanto del mondo compiuto dalla rivelazione biblica si traduce allora non nel rapporto esclusivo uomo – natura, interpretato nella forma dello sfruttamento e del dominio, ma nella relazione articolata fra l’universo creaturale, la più alta delle creature e l’unico Signore del cielo e della terra.

Sul piano etico questa relazione impegna l’uomo a render conto al Dio vivente della maniera in cui si rapporterà al mondo, che l’Eterno ha affidato alle sue cure, e tanto più del modo in cui si relazionerà all’altro uomo, come lui immagine di Dio. Secondo la nota tesi di Karl Löwith non è la radice t
eologica, ma la sua perdita che trasforma il mito moderno del progresso in una permanente minaccia all’equilibrio dei rapporti fra l’uomo e il suo ambiente. Dove è perduto il senso della Trascendenza, ogni alterità è svuotata di consistenza e l’imperialismo del soggetto ha libero corso, anche nei rapporti con la natura.

L’Altro non riducibile al medesimo è dunque quanto la coscienza morale ispirata dalla fede biblica e confermata dalla crisi dei modelli ideologici propone all’uomo come misura del suo agire, altrimenti indiscriminato: in questo senso, veramente il Dio biblico è l’avvocato dell’uomo, non la sua minaccia o il suo concorrente. Alla luce di questo criterio fondamentale, la teologia ricorderà alla scienza che nessun intervento promosso dalla ragione scientifica sarà moralmente accettabile, se comporterà in qualunque forma o misura una violazione della sacralità della vita umana e della unicità e irripetibile dignità dell’essere personale (come nel caso di applicazioni di ingegneria genetica a scopo alterativo o distruttivo di esseri umani). Viceversa, lì dove la persona sarà rispettata o promossa (come nel caso delle applicazioni della genetica a livello diagnostico, terapeutico o produttivo, sempre che le tecniche adoperate non comportino danno all’integrità o alla vita stessa dell’essere umano), l’intervento di manipolazione scientifica risulterà moralmente fondato.

Dove c’è autonomia assoluta del protagonismo storico, lì ogni manipolazione e alienazione risulterà possibile. Dove invece è riconosciuta ed accolta un’eteronomia fondatrice, lì anche le forme più avanzate di ricerca scientifica rispetteranno il valore assoluto della persona umana e promuoveranno una cultura della vita e della sua qualità per tutti e per ciascuno. Affermare l’eteronomia fondatrice vuol dire per lo scienziato non ergersi a misura del tutto e di tutti, per entrare nella logica di un’etica della solidarietà e della responsabilità, che solo è capace di servire tutto l’uomo in ogni uomo.

In questo tempo postmoderno, descritto già come quello del “naufragio con spettatore” (H.Blumenberg), in cui ciascuno è al tempo stesso naufrago e responsabile dinanzi al naufragio, nel dialogo fra teologia e scienza non si gioca solo una battaglia dell’uomo con se stesso, ma una vera e propria lotta di Giacobbe, in cui la posta in gioco è la dignità stessa dell’essere umano e la qualità della vita per tutti. In questa lotta vince chi si lascia vincere dalla maestà dell’Altro, trascendente e sovrano: solo dove l’esistenza della persona è riconosciuta come dono da accogliere e rispettare, inviolabile nella sua sacralità, fondata eteronomamente, la ricerca scientifica conosce dei limiti e delle misure di ordine deontologico e sfugge ai rischi dell’alienazione.

La qualità etica della scienza non sta nelle sue possibilità e nelle sue pretese di assolutezza, ma nel suo essere consapevole dei propri limiti e delle proprie capacità in campo etico e sociale, per inserirsi ordinatamente in un progetto di umanità solidale e di responsabilità morale nei confronti di ogni essere umano. È ricordando questo alla scienza che la teologia si fa sua “ancella”: è tacendo su questo, che si fa complice della caduta della razionalità scientifica nelle secche alienanti dello “scientismo”.

Non dunque una teologia ancella della scienza in senso servile, né una scienza ancella della teologia in chiave concordistica, ma teologia e scienza ancelle entrambe dell’altro, al servizio di tutto l’uomo in ogni uomo, aperte all’Ultimo, che tutto supera e trascende, nella fedeltà al penultimo, senza lasciarsi catturare da alcuno…

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ZENIT Staff

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