di Antonio Gaspari
ROMA, domenica, 25 maggio 2008 (ZENIT.org).- “Il bambino non è mai un rischio. Non si possono eliminare i concepiti per il rischio di una malattia. I medici devono curare la malattia, non sopprimere il malato”, sostiene Carlo Valerio Bellieni, Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario “Le Scotte” di Siena.
In alcune dichiarazioni a ZENIT il neonatologo ha spiegato un documento-appello dal titolo “Per un accesso consapevole alla diagnosi genetica prenatale” sottoscritto dai presidenti di varie associazioni familiari e di disabili, insieme a bioeticisti e medici specialisti in genetica, pediatria, psichiatria e ginecologia
Tra i firmatari: i neonatologi Carlo Bellieni e Guido Cocchi; la psichiatra Margherita Gravina; Marco Maltoni, medico palliativista; i ginecologi Giuseppe Noia, e Patrizia Vergani; i bioeticisti Gabriella Gambino e Claudia Navarini; Paolo Arosio, neonatologo e presidente dell’associazione “Amici di Giovanni”; Luigi Vittorio Berliri, presidente dell’associazione “Spes contra Spem”; Loris Brunetta, presidente dell’associazione ligure talassemici; Sabrina Paluzzi, presidente dell’associazione “La Quercia Millenaria”; e Claudia Ravaldi, psichiatra e presidente dell’associazione “Ciao Lapo”.
I promotori del documento constatano con preoccupazione che la diagnosi prenatale, da strumento utile per la diagnosi e cura delle malattie, sta diventando sempre più uno strumento di discriminazione eugenetica che giustifica la selezione delle nascite.
A questo proposito, Bellieni ha riportato le denuncia di Didier Sicard, presidente del Comitato francese di Bioetica, il quale ha precisato che “la diagnosi prenatale sta diventando un fattore di eugenetica” perchè “tende alla soppressione e non alla cura” e che in questo modo “la Francia costruisce passo dopo passo una politica sanitaria che flirta ogni giorno di più con l’eugenetica”.
Il neonatologo senese ha quindi rilevato come il timore che la diagnosi prenatale possa favorire una pratica selettiva ed eugenetica sia stato sollevato anche da alcune riviste medico-scientifiche come il Journal of Medical Ethics che nel 2000 ha pubblicato un articolo dal titolo “Consumerism in prenatal diagnosis” (Sul consumismo nella diagnosi prenatale), o i lavori di M. Aldred che sostengono l’eticità dell’aborto per evitare la nascita di bambini con anomalie dentarie.
Bellieni ha segnalato anche un articolo di D.I. Bromage sul Journal of Medical Ethics del 2006 in cui si parla del “trend in aumento di diagnosi prenatale e di aborti di feti che sarebbero nati con disabilità”.
In 10 anni per effetto dell’aborto non sono nati “il 43% dei feti con palato fesso e il 64% di quelli con piede torto, nonostante entrambe le situazioni siano curabili”. Nell’articolo si spiega che il suggerimento è stato che “abortire feti con disabilità è una forma di altruismo”.
Per evitare la deriva eugenetica i firmatari dell’appello chiedono “di salvare la buona diagnostica” e un “accesso consapevole alla diagnosi genetica prenatale”.
Secondo Bellieni, “troppo spesso, la diagnosi genetica prenatale viene proposta in modo routinario, e troppo spesso la donna viene lasciata sola a decidere, con una diagnosi di malattia del figlio in arrivo, che cosa fare di lui”.
“Ma negli Stati Uniti – ha precisato il neonatologo – dove la pratica prevede la piena informazione, il colloquio con lo specialista della malattia diagnosticata, l’analisi delle prospettive terapeutiche, si è visto che crolla il ricorso all’aborto”.
Per questo motivo i firmatari del documento sostengono che la diagnosi prenatale “non può mai essere routinaria né proposta sistematicamente, nemmeno nel caso della diagnosi genetica ecografica (per esempio misurazione dello spessore della plica nucale), ma deve essere sempre preceduta da una dettagliata informazione su limiti, rischi, implicazioni e possibilità terapeutiche nell’ambito di una adeguata consulenza pre-diagnostica, affinché la donna possa compiere una scelta informata ed autenticamente consapevole, conservando la piena libertà di accettare o rifiutare lo screening o il test”.
Nel documento si afferma inoltre che “in caso di riscontro di una patologia, la diagnosi prenatale non è da considerarsi terminata (salvo esplicito diniego da parte della donna) senza il coinvolgimento di uno specialista della patologia riscontrata (consulenza post-diagnostica, come riportato dal Journal of the American Medical Association 2007), in grado di fornire informazioni sulla patologia, sulla possibilità di un percorso terapeutico e su possibili agevolazioni socio-economiche in grado di assistere la famiglia, e senza informare sulla possibilità di partorire in anonimato e dare il figlio in adozione”.