Da “I cure” a “I care”: una medicina che salva, accompagna e non sopprime la vita

Il professor Giuseppe Noia denuncia una tendenza alla eutanasia prenatale

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ROMA, lunedì, 21 maggio 2007 (ZENIT.org).- E’ necessaria “una medicina che non dice solamente ‘io ti curo’, ma che dice soprattutto: ‘io mi prendo cura di te’”, sostiene Giuseppe Noia, professore associato di Ginecologia e Ostetricia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.

Così ha detto il noto ginecologo intervenendo giovedì 17 maggio, a Roma, presso la Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum”, alla presentazione del libro “Il figlio terminale: storie di amore straordinario in risposta alla ordinaria eutanasia prenatale” (Nova Millennium Romae)

Intervistato da ZENIT, il professor Noia ha spiegato che “l’evoluzione delle conoscenze sul benessere fetale negli ultimi 30 anni ha fortemente rilanciato la medicina del feto e anche se si parla sempre più di feto come paziente, non si può sottacere che dinanzi a molte condizioni di anomalie del feto si procede tout court ad una vera e propria eutanasia prenatale, cioè, ad una morte ‘ attivamente programmata’ di un feto considerato terminale”.

Il docente di Ginecologia e Ostetricia ha denunciato il fatto che “53 milioni di aborti volontari praticati annualmente nel mondo rappresentano il più grande olocausto della storia umana” e che “il nostro tempo, assolutamente tragico, non si rende conto di un miliardo di vittime indifese soppresse in più di 30 anni, perché si è verificato un processo di rimozione collettiva, una narcosi del cuore che rende terminali embrioni e feti che tali non sono”.

Per quanto riguarda l’Italia, Noia ha rilevato l’aumento dei tassi di abortività e la ripetizione dell’abortività volontaria, proprio nelle regioni dove più diffusa è stata la mentalità contraccettiva (Puglia, Umbria e Liguria).

Per il professore dell’Università Cattolica “la relazione tra l’aborto volontario e la salute psichica delle donne viene spesso sottaciuta per non evidenziare la contraddittorietà di una pratica medica che viene scelta a norma di legge (Legge n. 194, 1978) per tutelare la salute psichica della donna e che invece la danneggia”.

A questo proposito Noia ha ricordato che “disturbi della salute psichica sono tre volte più frequenti in pazienti che hanno avuto aborti volontari rispetto a pazienti che hanno portato avanti la gravidanza e le psicosi depressive sia esse sporadiche che ricorrenti, sono due volte più frequenti facendo la stessa comparazione”.

Il professore, che è anche un esperto di terapie prenatali, ha citato autorevoli studi che dimostrano come “la tendenza al suicidio è fortemente correlata all’aborto volontario”, confermando il dato tragico che “sebbene non tutte le interruzioni portino alla depressione e/o al suicidio, tuttavia ne aumentano sensibilmente i rischi e l’incidenza”.

Il professor Noia ha quindi denunciato quello che ha chiamato “la sindrome del feto perfetto” e cioè quella cultura, largamente dominante, secondo cui “se il figlio perfetto non è, si può eliminare”.

Secondo questa cultura, ha spiegato il ginecologo, “il feto malformato è una vita sbagliata, è una minaccia per la società, per cui è giusto che queste vite vengano fermate mediante l’aborto selettivo ed esso si può attuare con le tecniche diagnostiche”.

“La diagnosi prenatale così intesa – ha continuato Noia – utilizza un falso concetto di prevenzione: vedere per eliminare, mentre la sua finalità etica è vedere per curare. Come si vede una stessa conoscenza, senza discernimento etico, può essere usata contro la persona umana!”.

Il professore ha spiegato che “il significato di screening che, nella vita post-natale ha un significato ben preciso (individuare le persone portatrici di una patologia e come tali curarle), nella vita prenatale è stato completamente stravolto: si individuano i feti portatori di anomalie, con metodiche invasive e non invasive, per poi ‘eliminarli’”.

A giudizio del professor Noia “questa dinamica che sul piano antropologico sancisce un criterio eugenistico e selettivo, è accettata come una prassi ormai consolidata”.

In questo contesto il docente dell’Università cattolica ha denunciato la manipolazione culturale e scientifica che rende terminali gli embrioni che vengono sacrificati nell’86% dei casi, attraverso la mistificazione del concetto di terapia della sterilità.
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“Può essere definita terapia della sterilità un insieme di tecnologie che per far nascere 87.347 bambini ne deve sacrificare più di mezzo milione? – si è domandato –. Che cosa è, se non una manipolazione culturale e scientifica, il dato che, dopo la diagnosi pre-impianto, su 17.544 embrioni fecondati si sono avute solo 279 nascite (l’1.5%) (ESHRE Preimplantation Genetic Diagnosis Consortium,2001) e che la crioconservazione degli embrioni comporta che se ne perdino il 91.6% su quelli trasferiti e il 95.7% su quelli scongelati?”.

Il professore ha voluto quindi indicare un altro tipo di terminalità che è quello indotto dall’ignoranza e dalla medicina difensiva.

A questo proposito, ha fatto riferimento alle infezioni prenatali nei confronti delle quali “esistono grandi distese di ignoranza, nel senso che si ignorano realmente i meccanismi che possono portare ad un danno fetale quando la madre contrae una infezione trasmissibile al feto”.

“Per alcune (vedi toxoplasmosi e citomegalovirus) è possibile effettuare delle terapie in gravidanza, lunghe ma con risultati, per i feti, assolutamente eccellenti”, ha spiegato.

Noia ha poi accusato quella che ha definito “l’accidia intellettuale” e cioè “quel comportamento di pigrizia culturale e scientifica che viene proiettato sul mondo prenatale”.

Il ginecologo ha quindi indicato lo strano comportamento “dei grandi opinion leader che si stracciano le vesti sui media per difendere l’innegabile valore del progresso della scienza”, sebbene “si assiste ad un meditato quanto riduttivo silenzio da parte degli stessi, se quella stessa scienza, con le sue tecnologie, dimostra che è possibile curare un feto considerato terminale e inguaribile solo pochi anni prima”.

Noia ha illustrato che la terapia fetale è una realtà scientificamente ampia ed evidente e che le modalità per curare il feto in utero sono sempre più numerose.

Oggi è possibile correggere l’anemia o altri stati patologici del feto con una sopravvivenza che negli ultimi 15 anni è passata dal 60% al 92%.

Nel caso di rottura delle membrane e perdita del liquido amniotico al 4/5 mese, attraverso nuove tecniche la sopravvivenza è passata, negli ultimi 15 anni dallo 0% al 40-60%.

Nei casi di patologie da scompenso cardiaco fetale e presenza di liquidi in molte cavità del corpo, grazie a nuovi sviluppi la sopravvivenza è passata dal 10% al 60%.

Nella sindrome da trasfusione feto-fetale delle gravidanze gemellari la sopravvivenza dei casi da noi trattati è passata dal 12% al 42%.

Attraverso nuovi approcci nei feti che presentano una malformazione urinaria che impedisce l’uscita dell’urina attraverso l’uretra, la sopravvivenza si è triplicata.

“I dati cumulativi di 20 anni di esperienza dimostrano che una medicina fetale eticamente guidata realizza risultati impensabili, restituendo dignità alla diagnosi prenatale come momento propedeutico per curare e non per uccidere”, ha affermato il professore.

“E quando questo non è possibile – ha continuato Noia – c’è una grande dignità scientifica ed umana nell’accettare i limiti momentanei del proprio sapere o operare. Senza vergognarsi di stringere la mano alla paziente che soffre, ci si può stringere alle problematiche della coppia, e si attua così un’azione altamente terapeutica nel contesto del rapporto medico-paziente realizzando quel passaggio del ‘I Cure’ ( ti curo) al ‘I Care’ ( mi prendo cura di te)”.

Facendo riferimento al lavoro che viene svolto dall’Associazione “La Quercia Millenaria” (http://www.laquerciamillenaria.org), di cui è cofondatore, il professor Noia ha proposto di rilanciare “una medicina esperienziale, una medicina condivisa”.

Questo perché “il bene prezioso della vita sia difeso e amato, e perché il dolore e la sofferenza vengano leniti dall’accoglienza e dalla professionalità degli operatori del mondo medico che attuano una medicina condivisa, una medicina che non dice solamente ‘io ti curo’, ma dice soprattutto: ‘io mi prendo cura di te’”, ha concluso.

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ZENIT Staff

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