A 40 anni dalla Populorum progressio si conferma l’insostenibilità del sottosviluppo (II)

Intervista a Simona Beretta, professore straordinario di Politiche Economiche internazionali

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ROMA, domenica, 18 marzo 2007 (ZENIT.org).- Quarant’anni fa, l’allora Pontefice Paolo VI aveva trattato nell’Enciclica Populorum progressio molti temi “profetici”, che sono divenuti centrali nel dibattito contemporaneo, come lo sviluppo sostenibile.

E’ quanto sostiene nella seconda parte di questa intervista a ZENIT Simona Beretta, docente presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

La prima parte è stata pubblicata il 16 marzo.

Spesso lo sviluppo è stato osservato attraverso la lente delle ideologie. Una delle ideologie oggi più diffuse è quella della decrescita e del doposviluppo. Le sembra che la Populorum progressio avvalori questa visione dello sviluppo?

Beretta: No, rileggendola non riesco davvero a trovare nella Populorum progressio l’auspicio della decrescita! Anzi, ci trovo uno slancio entusiasta per la crescita e lo sviluppo. Certamente, con realismo pacato e costruttivo, l’Enciclica riconosce che ogni crescita è ambivalente: “necessaria onde permettere all’uomo di essere più uomo, essa lo rinserra come in una prigione, quando diventa il bene supremo che impedisce di guardare oltre” (n. 19). Ma la sottolineatura della ambivalenza della crescita non porta ad auspicare la decrescita; anzi, a proposito della industrializzazione, la Populorum progressio parla con evidente compiacimento del “gusto della ricerca e dell’invenzione, l’accettazione del rischio calcolato, l’audacia nell’intraprendere, l’iniziativa generosa, il senso della responsabilità” (n. 25) e conclude riconoscendo “l’apporto insostituibile dell’organizzazione del lavoro e del progresso industriale all’opera dello sviluppo” (n.26).

Vorrei citare un’altra frase: “… per le nazioni come per le persone, l’avarizia è la forma più evidente del sottosviluppo morale” (n. 19). E’ interessante questo collegamento fra avarizia e sottosviluppo, perché si riscontra sia a livello morale, sia a livello economico. L’avarizia è proprio il rifiutarsi di mettere in gioco i “talenti”, quello che si è e quello che si ha, per crescere personalmente e socialmente. Questo mettere in gioco i talenti è la molla dello sviluppo vero, perché ci costruisce come persone e costruisce anche una migliore convivenza fra gli uomini. Il realismo dell’Enciclica, insomma, valorizza quel che c’è di buono nella crescita e ci educa a spalancare continuamente lo sguardo e il cuore, rompendo la prigione in cui ci confiniamo quando poniamo la crescita come fine a se stessa.

Proprio il realismo dell’Enciclica contrasta moltissimo con il linguaggio fumoso della “decrescita” e del “doposviluppo”. Prendiamo un documento ufficiale di questa nuova ideologia utopica, il “Manifesto del doposviluppo”(http:://www.decrescita.it/il manifesto.php). Pur infarcito di buone intenzioni e di riferimenti ai valori (l’ambiente, la giustizia sociale, la difesa delle pluralità delle tradizioni culturali…) il manifesto è molto chiaro nell’affermare che vuole tutto… e il contrario di tutto. Per i poveri del mondo auspica (sogna?) una “sintesi fra la tradizione perduta e la modernità inaccessibile”; per l’Occidente reclama la riduzione drastica del tempo dedicato al lavoro e la valorizzazione del tempo libero… “ma tutto ciò non è necessariamente antiprogressista e antiscientifico”. Che dire? A me, personalmente, rimane la convinzione che sia la realtà, e non il sogno (o l’allucinazione), il terreno più affascinante dove mettermi in gioco.

A rileggere oggi la Populorum progressio si può avere l’impressione di un’Enciclica “ingenua”, ma in questi quarant’anni abbiamo visto che il problema dello sviluppo è più complesso di quanto non potesse apparire alla fine degli anni Sessanta. Cosa ne pensa?

Beretta: Ad una lettura superficiale, potrebbe sembrare così. Alcune espressioni riflettono certamente il clima di quegli anni, che dalla loro parte avevano – insieme alla “ingenuità” ricordata nella domanda – anche un convinto e diffuso entusiasmo nei confronti delle iniziative per la lotta alla fame e al sottosviluppo. Certamente sarebbe grave se, in quarant’anni di esperienza e di studio, non avessimo imparato niente di nuovo: oggi c’è sicuramente una maggiore sofisticazione nell’analisi e nella progettazione degli interventi, così come una maggiore consapevolezza del funzionamento dei sistemi economici complessi, aperti agli scambi internazionali di beni, servizi e capitali.

Ma una lettura attenta della Populorum progressio ci fa constatare la presenza, nell’Enciclica, di molti temi all’avanguardia, centrali nel dibattito contemporaneo. Esempio: lo sviluppo sostenibile. L’aggettivo “sostenibile”, che oggi costituisce una elemento immancabile e indiscusso del linguaggio sullo sviluppo, è stato introdotto nel dibattito mondiale come una idea assolutamente innovativa dal Rapporto Bruntland del 1987, “Our Common Future”, che definisce lo sviluppo sostenibile come quello sviluppo che è in grado di soddisfare i bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i loro bisogni e viene presentata ancora oggi. Ora citiamo un brano della Populorum progressio, di giusto vent’anni prima, che così “spiega” il significato della destinazione universale dei beni: “Se la terra è fatta per fornire a ciascuno i mezzi della sua sussistenza e gli strumenti del suo progresso, ogni uomo ha dunque il diritto di trovarvi ciò che gli è necessario. … Tutti gli altri diritti, … compresi quelli della proprietà e del libero commercio, sono subordinati ad essa” (n. 22). Niente male, come tempismo.

Posso fare una lista sommaria di altri temi “profetici” che si ritrovano: la sostenibilità del debito dei paesi poveri e il delicato equilibrio fra ownership nazionale delle politiche di sviluppo e loro monitoraggio da parte dei prestatori (n. 54); i pericoli del nazionalismo (n. 62), il brain drain (n. 68), i pericoli degli approcci tecnocratici: “la tecnocrazia di domani può essere fonte di mali non meno temibili che il liberalismo di ieri” (n. 34). la necessità di “Dialoghi di civiltà” (73). Per non parlare del titolo che introduce la conclusione: “Lo sviluppo è il nuovo nome della pace”, certamente da ricordare nell’anno in cui il Nobel per la pace è stato conferito a un innovatore nel campo della microfinanza per lo sviluppo.

Un punto della Populorum progressio sembra particolarmente attuale, laddove Paolo VI diceva: “La tecnocrazia di domani può essere fonte di mali non meno temibili che il liberalismo di ieri”.

Beretta: Sì, è un punto decisamente importante. Gli anni in cui è stata scritta la Populorum progressio erano caratterizzati dalla diffusa convinzione che fosse necessario un massiccio sforzo di programmazione e di intervento da parte delle autorità pubbliche per perseguire gli obiettivi di sviluppo. Anche l’Enciclica constata l’insufficienza del laisser faire: “La sola iniziativa individuale e il semplice gioco della concorrenza non potrebbero assicurare il successo dello sviluppo” (n. 33), ma articola la sua proposta in modo decisamente originale rispetto al dibattito di allora: “Spetta ai poteri pubblici di scegliere, o anche di imporre, gli obiettivi… certo deve aver cura di associare a quest’opera le iniziative private e i corpi intermedi”. Proprio perché l’Enciclica ha a cuore la promozione, fino all’ultimo, della libertà della persona umana, “autore del proprio progresso”, vede i pericoli della tecnocrazia, che svuota la libertà del singolo di agire e di valutare, e rilancia una impostazione sussidiaria dell’intervento pubblico.

Devo dire che oggi si è effettivamente riscoperto, paradossalmente quasi più da parte del mondo “laico”, il principio di sussidiarietà – sia pure talvolta ridotto a principio organizzativo orientato all’efficienza o addirittura strumentalizzato per acquisire il consenso di attori sociali altrimenti difficilmente controllabili. La sfida anti-tecnocratica che rimane aperta, a quarant’anni dalla Populorum progressio, riguarda proprio come dare attuazione alla reale promozione della libertà (che “non sia una parola vana”, n. 47) per cui gli uomini possono vivere una vita pienamente umana, ossia alla ragione profonda per cui davvero le iniziative private e i corpi intermedi devono essere implicate nei programmi pubblici di sviluppo.

Oggi, molti dei paesi che ai tempi di Paolo VI erano in pieno sottosviluppo sono emersi sulla scena economica e si preparano a diventare addirittura grandi potenze. Ciò risolve i problemi dello sviluppo o ne crea di nuovi che, per motivi storici, l’allora Pontefice non aveva conosciuto?

Beretta: Lo scenario mondiale è molto cambiato. E’ vero che, grazie alla crescita economica, in diversi paesi si è ampliato l’accesso ai beni necessari e più in generale sono migliorate le condizioni di vita; paesi che una volta erano destinatari di aiuti sono diventati dei donatori; certamente si sta spostando ad Est il baricentro mondiale della capacità produttiva e della potenza economica.

Queste “cose nuove” sono il nostro banco di lavoro. Infatti, il problema dello sviluppo autentico non è mai risolto. Innanzitutto, non è risolto per la grande parte della popolazione mondiale che ancora attende condizioni decenti di salute, di istruzione, di lavoro, di reddito e di consumo. Ma non è risolto per nessuno, se è vero che “nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione” (n. 15).

L’umanità che “avanza sul cammino della storia” (n. 17) non ha ancora finito l’opera dello sviluppo, “che è il passaggio, per ciascuno e per tutti, da condizioni meno umane a condizioni più umane”. A questo richiama l’Enciclica, e non certo solo alla crescita del PIL pro-capite. Anzi, la elencazione di cosa ci rende “più umani” (n. 21) non lascia dubbi sul fatto che anche nei nostri paesi ricchi di beni materiali resti ancora molto da fare.

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ZENIT Staff

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