Non è sempre la sofferenza ad avere l'ultima parola

Danilo ed Alex: due risposte diverse a un destino simile

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«Se Dio vuol togliere il male e non può, allora è impotente. Se può e non vuole, allora è ostile nei nostri confronti. Se vuole e può, perché allora esiste il male e non viene eliminato da lui?»

La risposta al quesito di Epicuro (e riportato da Lattanzio nel De ira Dei) l’ha data Danilo Giacometti senza neppure aprir bocca. Con un tuffo nelle acque dell’Adigetto il pensionato settantatreenne s’è portato appresso il nipote Davide, cinque anni appena. Il bambino soffriva sin dalla nascita della sindrome di Angelman, malattia genetica che causa ritardo mentale, difficoltà di movimento e di linguaggio. Un loro parente, passando per caso sull’argine, li ha trovati che erano già morti. Abbracciati stretti l’uno all’altro, nonno e nipote, a simboleggiare quello che per molti è stato un disperato gesto d’amore, ispirato probabilmente dal tentativo di scacciare così lo spettro della sofferenza.

Storia vecchia: col dolore l’uomo ha sempre cercato di regolare i conti, senza mai riuscirvi. Non a caso George Buchner, in uno dei suoi più intensi romanzi, (la morte di Danton) lo descrive come «la roccia dell’ateismo». Per millenni l’umanità ha provato a spianare questa roccia, con risultati modesti sotto il profilo meramente razionale. Anzi, proprio attorno a questi dilemmi s’è consumata la sconfitta della ragione, che Albert Camus sintetizzava affermando: «C’è un solo problema importante per la filosofia, il suicidio. Decidere cioè se metta conto di vivere o no».

Insomma, nel tormento dell’impotenza di ricondurre anche il soffrire sotto il dominio del raziocinio, l’unico spiraglio liberatore sembra essere la morte. Ma che le cose non stiano così lo ha testimoniato non un teologo, ma un uomo che la sofferenza l’ha sperimentata sulla propria pelle. E proprio nel giorno in cui tg e stampa raccontavano dei fatti di Lendinara, in video e sui giornali trovavano spazio le gesta di Alex Zanardi, l’ex campione di Formula 1 rimasto senza gambe dopo un terribile incidente e rinato a nuova vita da atleta paralimpico, capace di inanellare record su record, l’ultimo alle Hawaii nella disciplina del triathlon. “Iron Man”, come ormai lo chiamano i media, ha dato prova che la speranza e la perseveranza non hanno limiti. Col suo esempio di persona che non s’arrende di fronte alle difficoltà ha dimostrato, senza bisogno di accedere ai trattati di teologia, che la realtà del dolore non può essere razionalizzata, addomesticata attraverso facili teoremi, ma va combattuta vivendo, tenendo sempre accesa la fiammella della speranza e dell’impegno, anche quando tutto sembra non aver più senso ed il buio pare prevalere sulla luce.

È, in altri termini, ciò che Gesù Cristo ci ricorda invitandoci a guardare la Croce: il male e il dolore urlano con tutta la loro forza contro la mente, ma l’unico umano rimedio, paradossalmente il più ragionevole, è nella fede nel Dio fattosi carne e sceso in terra non per eliminare le umane fragilità, ma per condurre l’uomo oltre la sofferenza e la morte.

Sovente l’egoismo si traveste d’amore, ingannando sensi e sentimenti. Ma, come ci ricorda papa Francesco, «l’egoismo non porta da nessuna parte, l’amore invece libera». L’incrocio dei destini di Danilo, Davide e Alex lo dimostra.

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Vincenzo Bertolone

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