L'Ospedale: luogo della nuova evangelizzazione (Seconda Parte)

La prolusione di monsignor Fisichella alla XXVII Conferenza Internazionale del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari

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CITTA’ DEL VATICANO, sabato, 17 novembre 2012 (ZENIT.org) – Riportiamo di seguito la seconda parte della prolusione di monsignor Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, intervenuto ieri alla prima sessione della XXVII Conferenza Internazionale del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari. La prima parte è stata pubblicata venerdì 16 novembre 2012.

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Il senso del dolore nei nuovi areopaghi

Questa considerazione permette di avviare una prima riflessione sul nostro tema. Il vangelo non esclude nessun ambito della vita personale e sociale; la Chiesa, quindi, non può dimenticare nessun luogo che è raggiunto dall’uomo e all’interno del quale egli concretizza la sua esistenza personale. Ad ogni suo contemporaneo, la comunità cristiana è chiamata a portare la parola del Vangelo che dà senso e che salva. Si sente spesso parlare in questo periodo della presenza della Chiesa nei nuovi areopaghi che segnano la cultura moderna e che offrono spazi di annuncio prima sconosciuti. È una suggestione importante per la nuova evangelizzazione perché deve essere in grado non solo di riconoscere questi nuovi spazi, ma soprattutto trovare le forme coerenti per potervi entrare. L’apertura verso queste nuove forme, che permane fondamentale, non può far dimenticare l’impegno che da sempre i credenti hanno profuso nei confronti di ambiti meno eclatanti e spesso tra i più dimenticati come quelli che ruotano intorno al grande capitolo della sofferenza umana. I nuovi areopaghi sono segnati non poche volte dalla volontà di sottacere o nascondere questi luoghi perché non accettano che l’uomo possa sperimentare la debolezza, dopo che loro stessi hanno illuso sulla sua onnipotenza. Eppure, proprio in forza di questo e per amore della verità dovremmo essere capaci di portare nei nuovi areopaghi il senso della sofferenza dimenticata e del dolore taciuto.

Il fatto che la religione cristiana abbia come suo specifico l’incarnazione del Figlio di Dio non è senza conseguenze nell’ordine dell’organizzazione della sua vita personale e sociale. Se Dio entra nella storia e la assume su di sé come criterio di partecipazione alla vita umana, allora tutto ciò che comporta la vita di una persona e della società in cui vive diventa spazio per l’agire dei credenti. Nulla è salvato di ciò che non è stato assunto dal Verbo di Dio. Tutto ciò che è stato assunto, invece, è per ciò stesso salvato e trasformato. L’incarnazione di Dio impegna la Chiesa a entrare nella storia degli uomini e renderli partecipi di un piano di salvezza che non è solo promessa futura di vita eterna, ma già fin d’ora cambiamento e trasformazione della vita presente. I miracoli che Gesù ha compiuto, ad esempio, non avevano solo lo scopo di evidenziare la sua potenza sul male, sulla malattia e sulla morte, ma nello stesso tempo erano preludio per annunciare la concreta trasformazione dell’uomo. Ciò che sarà nei tempi nuovi e nella terra nuova viene fin da ora reso visibile mediante il cambiamento che la potenza di Dio realizza se ci si abbandona nella fede. Il corpo sarà trasformato e con esso l’intero creato. Questa concezione ha da sempre trovato un suo spazio di peculiare ascolto nel momento dell’esperienza della sofferenza. L’apostolo aveva detto in maniera perentoria: “Quando sono debole, allora sono forte” (2Cor 12,10). I momenti di debolezza dell’uomo, quindi, possono diventare spazio per rendere evidente la forza della potenza di Dio che dal nulla porta all’essere ogni cosa.

È la forza della fede che ha consentito nel corso dei secoli di trasformare i luoghi pagani,dove l’ammalato veniva illuso dal mito e dai suoi ministri sulla sua reale condizione, in centri di amorosa accoglienza dove prendersi direttamente cura del malato. Ciò che il paganesimo rivolgeva alla divinità perché intervenisse a favore del malato, il cristiano lo fece diventare il luogo del suo impegno diretto perché il malato potesse toccare con mano la concreta vicinanza di Dio attraverso l’amore caritatevole dei fratelli. Questo è un primo atto di nuova evangelizzazione che si impone come obbligo a non dimenticare la condizione umana in tutti i suoi aspetti.

Di fatto, siamo dinanzi alla nuova evangelizzazione come espressione culturale che entra nella formulazione di una nuova antropologia di cui la cultura dei nostri giorni ha una particolare necessità. Tesi come siamo a dare immagine e voce solo alla bellezza per soddisfare un ormai eclatante narcisismo, o al diritto di essere sani per illuderci di un’immortalità che non ci appartiene, la Chiesa ha come suo obbligo quello di ribadire la dignità della persona umana in tutte le sue espressioni. Non potrà mai esserci una società degna di questo nome se si impone una cultura che in nome della vita e del diritto individuale offre la morte come condizione di selezione e discriminazione. La dignità della persona vale per il fatto stesso di esistere e di portare impresso in sé l’immagine di Dio. Ogni altra manifestazione che si fermasse alla sola perfezione corporale e discriminasse in forza dell’età, della razza e della lingua le altre persone non dovrebbe trovare posto tra le nostre case né tantomeno potrebbe essere espressione del progresso raggiunto da secoli di civiltà. Davanti a forme culturali che spingono verso una ossessione per la bellezza fisica fino a sfiorare il ridicolo per l’illusione di offrire un’eterna giovinezza con una soluzione chirurgica che fa trasparire ancora di più la vecchiaia che si vuole nascondere, è importante porre la questione sul senso della vita e sulla sua essenza. Davanti a un rinato culto pagano nei confronti del corpo è necessario alimentare un maggior senso critico che permetta di restituire ad un uomo confuso il giusto senso delle cose e la reale misura dei suoi atti. Questa è nuova evangelizzazione che porta una boccata di ossigeno presentando la verità e per questo la libertà di ognuno contro l’illusione e quindi l’inganno.

[La terza e ultima parte della prolusione di monsignor Fisichella sarà pubblicata domani, domenica 18 dicembre]

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ZENIT Staff

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